Senegal, dopo la protesta corre lo scontento. I manifestanti: "Ci hanno lasciati soli"

L.M. - 2 Febbraio 2012
Il bilancio in Senegal per gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine è di un morto e sei feriti, a seguito del verdetto della Corte Costituzionale che ha sancito la legittimità della terza candidatura di Abdoulaye Wade
di Chiara Barison

DAKAR. Tempo di Gamou in Senegal, la festa religiosa della confraternita islamica sufi dei Tijiani, una delle più influenti del paese. Religione e politica si mescolano, oggi più che mai, lasciando ben poco spazio alla spiritualità.

E’ passata appena una settimana dal verdetto della Corte Costituzionale che ha sancito la legittimità della terza candidatura di Abdoulaye Wade, l’attuale presidente, scatenando la protesta popolare. All’estero molti media fanno circolare la notizia falsa che attribuisce il motivo delle manifestazioni alla bocciatura della candidatura del popolare cantante Yossou ‘Ndour. Ridono i senegalesi leggendo la distorsione (strumentalizzata?) della reale situazione. “Che idiozia!” precisa Modou, un ragazzo di appena trent’anni leggendo un sito italiano, poi continua: “la bocciatura della sua candidatura è l’ultimo dei nostri problemi. Anzi, il fatto che si fosse candidato non era stato accolto di buon grado. Popolarità e leadership sono due cose che non sempre vanno di pari passo”. 

Il pensiero di Modou è un pensiero comune e il suo sorriso arriva dopo giorni di tensione e grida. Di martedì l’ultimo bilancio tragico è di un morto e sei feriti durante la manifestazione organizzata dai movimenti di opposizione M23 e Y’en a Marre. Erano in migliaia quel pomeriggio in piazza dell’Obelisco, compresi i leader politici più influenti: Moustapha Niasse, Macky Sall, Ousmane Tanor Dieng, Ibrahima Seck, Cheikh Bamba Dièye, Youssou ‘Ndour, Cheikh Tidiane Gadio. La manifestazione, pacifica ma non autorizzata, è degenerata nel momento in cui alcuni giovani hanno iniziato a lanciare sassi in direzione della polizia. A quel punto i poliziotti hanno caricato i manifestanti sparando lacrimogeni. Mamadou Diop, 32 anni, studente in legge presso l’Università pubblica di Dakar Cheikh Anta Diop, è stato investito da un camion della polizia, morendo sul colpo. Lungo tutte le principali strade della capitale, gruppi di giovani hanno costruito barricate e bruciato pneumatici per tutta la notte, in una spirale di violenza che ha mescolato ragione e noia. 
“Oggi stiamo assistendo ad uno scenario tragico che ha le sue radici in problemi sociali ed economici covati nel tempo ed il fatto che la popolazione assista ad una sorta di legalità dell’illegalità, porta i giovani a sperare nell’impunità dell’anarchia” dichiara il criminologo Souleymane Ndiaye in un’intervista rilasciata al giornale Enquete. “Ogni cittadino ha il sacro santo diritto di pretendere che lo stato garantisca la sicurezza della sua popolazione dando l’esempio della giustizia. Questo è un obbligo, altrimenti è inevitabile che si arrivi a ciò che prevede l’articolo due della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: la resistenza”. Una resistenza colma però di una rabbia e di una violenza sconosciuta in Senegal. C’è qualcosa che non va, qualcosa di non detto. Tra i manifestanti di piazza Obelisco corre veloce lo scontento. “Ci chiamano a manifestare e poi ci lasciano soli, tra pallottole e lacrimogeni” dice Cheikh, un ragazzo di 28 anni, riferendosi ai leader dell’opposizione che, martedì, tra retorica e guardie del corpo hanno dato prova di un’assoluta mancanza di agenda e conduttore. Una disorganizzazione che ha messo delle vite in pericolo e creato divisioni all’interno del movimento stesso. Nel frattempo il sottosegretario di stato americano incaricato degli affari esteri, William Burns, da Addis Abeba, dove si trovava per un vertice dell’Unione Africana, ha dichiarato di essere dispiaciuto per la decisione di un terzo mandato da parte del presidente Wade. Rammarico espresso anche dal governo francese che si dice preoccupato per un indebolimento della democrazia in Senegal. E mentre Ousmane Ngom, il ministro degli Interni risponde secco che “non sarà ammessa nessuna ingerenza da parte di paesi stranieri”, arriva inaspettato l’appello dei leader religiosi delle più grandi famiglie marabuttiche a cui si rifanno le confraternite islamiche sufi del paese. “Prego il presidente Wade di lasciare il potere, per amor di Dio” ha dichiarato il marabutto Mouhamed Niass, portaparola della famiglia Niassène de Leona Niassène alla televisione Wal Tv, aggiungendo che “il potere di questo mondo terreno non vale la morte di innocenti e Dio ricompenserà l’uomo in funzione del bene o del male che questo avrà compiuto. Invito il presidente Wade a seguire l’esempio di Cheikh Amadou Bamba, una delle figure storiche e religiose più importanti del nostro paese, simbolo della non violenza”. Dello stesso avviso il marabutto Mouhamadou Mansour Sall, a capo della famiglia religiosa Abass Sall che oggi, da Louga, ha incitato il presidente Wade a “lasciare il potere e a consacrarsi a Dio per entrare nelle sue grazie”. Chissà cos’avrà pensato oggi il presidente Wade, volando verso Tivaoune, la città santa dei tijiani, con il suo elicottero per evitare strade colme di contestatori, lui che fino ad oggi aveva sempre goduto dell’appoggio dei più influenti marabutti del paese (grazie a cospicui favori e finanziamenti) e che all’improvviso si ritrova solo al centro di tutto. Ecce Homo.