Razzismo istituzionale. Intervista a Clelia Bartoli

L.M. - 23 Aprile 2012
Perché le istituzioni italiane sono affette da razzismo, e quindi l’intero paese è razzista? Quanto le intuizioni di Potere Nero restano ancora attuali dopo circa cinquant’anni? Perché la questione immigrazione e quella meridionale si assomigliano? Lo chiediamo a Clelia Bartoli, docente universitaria a Palermo e autrice di Razzisti per legge. L’Italia che discrimina
Nell’introduzione al tuo libro indichi subito la tua tesi: e cioè che l’Italia è un paese razzista. Se dovessi scegliere tre parole e tre argomentazioni per sostenere ciò, cosa risponderesti?
«Sì, è vero, sostengo che l’Italia è un paese razzista. Ma bisogna capire in che senso il Bel Paese possa essere definito tale. A mio avviso l’Italia è razzista da un punto di vista istituzionale, il che significa tre cose:
1. Vi sono norme che negano il godimento di diversi diritti alla popolazione immigrata e ai loro figli: ad esempio, gli stranieri residenti sul territorio non hanno diritto di voto, pur contribuendo allo sviluppo del Paese  lavorando e pagando le tasse quanto e più dei titolari di cittadinanza (dato che ci sono una serie di balzelli esclusivi per stranieri). Come le donne prima del suffragio universale, gli immigrati sono governati senza essere governanti e ciò contrasta con il principio base della democrazia. Per non parlare poi di coloro che non hanno il permesso di soggiorno, agli irregolari sono di fatto negati gran parte dei fondamentali diritti umani.
2. Vi sono poi politiche che costruiscono ed enfatizzano le disuguaglianze, ad esempio l’invenzione dei “campi rom”. Al contrario di come si pensa, questi luoghi di segregazione e degrado non sono espressione di uno stile abitativo proprio della cultura zigana, ma sono il frutto di un’ideazione istituzionale italiana imposta e non scelta dalla popolazione rom, che ha avuto l’effetto di acuirne il disagio e la marginalizzazione.
3. Infine vi è un consenso popolare a norme e politiche razziste. Infatti, sebbene la maggior parte degli italiani non crede nell’ideologia della superiorità razziale ed è pronta a condannare atti individuali di violenza a sfondo razzista, sovente reclama e avvalla leggi e politiche discriminatorie nei confronti della popolazione migrante».
Più volte nel tuo libro emerge come un’analogia tra la condizione dei migranti e quella del nostro Mezzogiorno: il timore è che gli immigrati si trasformino in un “nuovo Sud”? Se sì, perché? Quali sono i punti di contatto tra le due questioni?
«La questione meridionale ha numerosi punti di contatto con la questione immigrazione. In primo luogo il “razzismo interno” verso i meridionali nasce dal fatto che i cosiddetti “terroni” erano migranti nelle regioni settentrionali, percepiti come invasori straccioni, predatori delle risorse locali e criminali dagli istinti più bassi e temibili. Pertanto il repertorio di clichè contro gli immigrati del Sud Italia è stato riciclato contro gli immigrati dal Sud del mondo. Ma la somiglianza e la contiguità storica non si limitano a questo. Il razzismo verso il Meridione è stato anche istituzionale: determinate norme e politiche hanno consolidato e accresciuto il divario tra Nord e Sud producendo conseguenze nefaste sull’intero Paese. Infatti gli effetti dell’esclusione sociale non riguardano solo gli esclusi. Quando una parte resta indietro, tutti poi ne pagano le conseguenze. Una forte disparità sociale aumenta la devianza, ostacola lo sviluppo, richiede maggiore spesa sociale. Occorre, pertanto, stare ben attenti a non insistere nell’errore, evitare che gli immigrati e i loro discendenti si trasformino in un nuovo Meridione, cioè una parte di popolazione lasciata indietro che poi pesa su tutti. Si badi, però, che i problemi del Mezzogiorno, come quelli della popolazione di origine straniera, non dipendono esclusivamente dal fatto che al Sud o ai migranti sono state indirizzate poche risorse, al contrario a volte le risorse sono state anche troppe, ma utilizzate in chiave assistenziale e clientelare. Il risultato è che in parecchi casi i fondi stanziati per gli interventi umanitari – per i poveri autoctoni, per il Sud o per gli immigrati – si traducono in occasioni per assegnare fondi pubblici a enti amici dei potenti. Le risorse così impiegate non servono a colmare il divario, a promuovere inclusione, impegno e cittadinanza, ma si traducono in una carità istituzionale che premia i servili e i collusi, alimentando nella popolazione “beneficiata” l’apatia civica e politica, il senso di impotenza, la dipendenza, l’attesa di un munifico protettore che aiutandoti ti spegne».
Una delle tesi del tuo libro è che gli immigrati stiano subendo un processo di razzializzazione: immigrati, clandestini nel gergo comune sono ormai delle “neo-razze”, anche se al loro interno sono inserite persone che provengono da punti opposti della terra. Che effetto ha sulle persone la compressione in categorie che nulla dice di loro?
«Essere vittima di razzismo non vuole dire soltanto avere meno diritti e risorse, non significa necessariamente essere destinatario di violenze e insulti, significa anche essere inchiavistellati in identità rigide, costretti a recitare ruoli che non si possono negoziare. L’identità razziale, al contrario di identità più fluide ed ariose, circoscrive le sue vittime in un perimetro angusto. Alla vittima di razzismo identitario è come se la Società dicesse: «non mi importa delle tue idee politiche, delle scuole che hai fatto, non mi interessa di chi sei innamorato o che genere di film ti piacciono, se sei un extra-comunitario, non sei altro che un extracomunitario e sei come tutti gli altri extracomunitari». Chi viene catturato da un’identità razzializzata rischia di modellarsi su di essa o di soffocarci dentro. Accade così che persone provenienti da ogni angolo del pianeta, con le più disparate storie di vita, idee e aspirazioni, si ritrovino costrette in gabbie identitarie forgiate da istituzioni, media e pubblica opinione. E dal momento che la nazionalità è percepita, non più come uno status determinato da leggi, ma come una razza data dalla natura, anche quando la persona – dopo lunghe e penose traversie – acquista la cittadinanza, continua ad essere considerato e a considerarsi “straniero”. A questo proposito devo muovere un rimprovero a molti immigrati o addirittura a dei figli di migranti che si definiscono “stranieri”, non realizzando che l’immigrato è di fatto un cittadino del paese che ha scelto, che sentirsi cittadini significa sentirsi parte attiva della comunità in cui si vive e non comporta né una rinuncia, né un tradimento a nessuna delle componenti che costituiscono la propria unica e variegata miscela identitaria».
Parlare di razzismo e impostare la propria analisi non su azioni individuali ma su quelle istituzionali racconta di un fenomeno da un punto di vista diverso da quello che siamo abituati ad immaginare. Quali sono i benefici del concentrare la propria indagine sul sistema e non sulle azioni individuali?
«Il razzismo istituzionale, come le mafie o la corruzione, è un male sistemico, pertanto non basta identificare e reprimere il singolo razzista, mafioso o corrotto per risolvere il problema, poiché vi è un terreno di coltura che permette una rapida riproduzione di atti e individui mafiosi, corrotti e razzisti. Come spiega il celebre psicologo sociale Philip Zimbardo, la migliore soluzione per garantire un successo di lungo termine nel contrasto ai mali di sistema non è quella di espellere le “mele marce”, bensì bisogna riparare il “cattivo cestino” che fa marcire le mele. Mi rendo conto che parlare di responsabilità di sistema può destare resistenze, perché alcuni potrebbero pensare che in questo modo si alleggerisce la coscienza dei razzisti, dei mafiosi o dei corrotti. Ma adottare una prospettiva sistemica non legittima l’argomento: “tutti colpevoli, quindi nessuno”. Io addirittura auspico un accrescimento della responsabilità individuale, non già solo delle mele marce, ma anche degli architetti di sistema, di coloro che hanno intrecciato i cattivi cestini e così hanno favorito il costituirsi di situazioni esplosive o degradanti, vedi il modo con cui è stato condotto l’arrivo dei migranti a Lampedusa in seguito alla Primavera Araba. E inoltre faccio ricadere un po’ di responsabilità anche su coloro che hanno votato o legittimato gli architetti di sistemi disfunzionali».
Concludi la tua opera con una serie di proposte per migliorare la gestione dell’immigrazione in Italia. Se avessi la possibilità di sceglierne una tra le varie e applicarla alla realtà, a quale daresti priorità?
«Vorrei che si passasse da una cittadinanza nepotistica alla cittadinanza di partecipazione. Vorrei che venisse riconosciuto quale cittadino non semplicemente chi è parente o coniuge di un cittadino italiano (è il principio dello ius sanguinis che vige attualmente) ma chi è cittadino di fatto, chi è parte e partecipe della Cosa Pubblica. Chi lavora in Italia o vi studia, chi vi paga le tasse, chi fa volontariato e cultura, chi vi mette al mondo dei figli, i bambini che qui crescono vorrei che diventassero tutti cittadini di diritto, perché lo sono già di fatto.Ritengo infatti doveroso riconoscere la cittadinanza a chi è operosa parte della comunità. Ciò ovviamente offrirebbe garanzie più forti ai migranti di godere dei diritti soggettivi. Ma desidererei che ciò avvenisse non solo per spirito solidaristico, ma per un interesse personale, poiché, pur essendo nata italiana, preferirei vivere in un paese che ha un’idea attiva della cittadinanza e che non ne faccia, come è ora, un franchigia derivante dal sangue, alla stregua del privilegio dei nobili e di clan tribali o malavitosi. Il bello dei legami civici – a differenza di quelli etnici o familistici – è che essi non si basano su qualcosa che c’è già, ma sono il frutto di una creazione comune in cui la mutua appartenenza è il risultato di un processo e non la sua premessa».

Luigi Riccio