La protezione umanitaria che non protegge. Intervista a Schiavone (Asgi)

Corriere Immigrazione - 28 Maggio 2012
La protezione umanitaria che non protegge e l’accoglienza che non accoglie: smagliature e paradossi del sistema Italia. I passi che la politica dovrebbe fare. Intervista a Gianfranco Schiavone (ASGI)
INTERVISTE. A Firenze è stata presentata qualche giorno fa Diritto alla protezione, la prima ricerca multidisciplinare sul sistema asilo in Italia (curata da ASGI, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, in collaborazione con AICCRE Associazione Italiana per il consiglio dei comuni e Regioni d’Europa, Caritas Italiana, Comunitas Onlus e Ce.S.Pi Centro Studi politiche internazionali). Abbiamo intervistato il coordinatore della ricerca Gianfranco Schiavone.

Quali sono le maggiori criticità che si riscontrano nel sistema dell’accoglienza italiano? 
Ci sono tre principali aree critiche. La prima: l’assenza di una programmazione che consenta di coprire i posti effettivamente necessari. I posti disponibili si rivelano sempre sistematicamente inferiori al numero delle domande presentate. E’ vero che non si può sapere a priori, in modo preciso, quello che accadrà. Altrettanto vero è che per questo, come per tutti i fenomeni complessi, è possibile e doveroso abbozzare una programmazione basandosi sull’esperienza pregressa. Consideriamo, per esempio, quel che è accaduto nel 2011, quando ci sono state 34mila domande e si è parlato di emergenza Lampedusa. I posti a disposizione erano poco più di 6000. Negli anni precedenti le domande erano attestate intorno alle 20/25mila. E’ evidente che anche senza la Primavera Araba il problema si sarebbe posto. Il governo elude in modo sistematico il nodo della programmazione e poi urla all’emergenza. La politica e anche gli organi di infromazione, invece di chiedere conto di ciò, gli vanno dietro.
E la seconda e la terza area critica? 
La seconda è la divisione tra i due grandi sistemi di accoglienza. Il sistema CARA e il sistema SPRAR. E’ totalmente irragionevole. Negli ultimi 10 anni si è evidenziato che il sistema SPRAR (cioè il sistema territoriale, imperniato sui progetti d’accoglienza locali piccoli, gestiti dai comuni) funziona, mentre l’altro no. Il sistema SPRAR costa meno e tutela meglio le persone. Bisognerebbe svuotare progressivamente i CARA per andare verso un unico sistema nazionale territorializzato, che permetterebbe di superare la terza questione, legata proprio alla dicotomia CARA/SPRAR. All’uscita dai CARA, diversamente da quello che succede nello SPRAR, che offre una continuità di percorso, il rifugiato spesso non trova alcun posto di seconda accoglienza. Nella ricerca, incrociando molti dati, siamo giunti alla conclusione che almeno il 65% dei rifugiati riconosciuti, al momento di uscita dal CARA, si trova in strada, nella condizione di homeless, sostanzialmente senza la possibilità di accedere ai servizi e di godere dei propri diritti.
Come è possibile che un programma di protezione crei dei senza fissa dimora? E’ un problema normativo? 
No, non è normativo: i titolari di protezione internazionale, infatti, hanno sulla carta i medesimi diritti in materia sociale e sanitario del cittadino italiano. Il problema è che l’accesso a questi diritti è veicolato, nel nostro ordinamento dalla territorialità. In altre parole, dalla residenza. Si tratta infatti di servizi erogati dagli enti territoriali. Se un rifugiato non ha una residenza si trova nell’impossibilità di esercitare i propri diritti. E i rifugiati che escono dai CARA difficilmente riescono ad avere una residenza. In teoria possono presentare la domanda in uno qualunque dei 5000 comuni italiani. In pratica, le condizioni per ottenere la residenza sono diventate così ardue che solo una minoranza riesce a centrare l’ obiettivo.
Perché ci sono dei richiedenti asilo nei CIE? 
La legge prevede che siano esaminate durante il trattenimento in un CIE le domande di persone che in precedenza abbiano ricevuto un provvedimento di espulsione o di respingimento, ovviamente non eseguito.
Eppure la scorsa estate, a Lampedusa, molte persone provenienti dal Maghreb che avevano fatto richiesta d’asilo sono stati mandate nei CIE, anche senza pregressa espulsione. 
E’ stata un’applicazione della legge del tutto illegittima. La norma esclude la contestualità della presentazione della domanda d’asilo e dell’emanazione di un provvedimento di espulsione o di respingimento. I due provvedimenti configgono tra di loro. Nella confusione totale che ha caratterizzato la gestione del 2011, non faccio difficoltà ad immaginare che siano avvenuti anche questi fatti. Le testimonianze sono ampie e concordi al riguardo.
A proposito di Lampedusa, come valuta i Centri di Soccorso e Prima Accoglienza (CSPA) come quello che c’era sull’isola (e poi è andato a fuoco), che sono stati a lungo presentati come modelli da seguire? 
Questi centri possono anche avere funzionato bene in certe fasi, ma il problema grande è che non sono regolamentati. Quello che avviene nella prassi quando i momenti virtuosi spariscono e succedono i momenti critici è che le persone rimangono confinate/trattenute di fatto in strutture di questo tipo per molti giorni, senza nessuna convalida giurisdizionale, senza alcun controllo giurisdizionale, senza alcuna definizione dei loro diritti. Sono luoghi privi di supporto normativo. Il problema si pone anche quando vengono utilizzati come strutture di soccorso perché qualunque luogo deve essere normato. Si pone in maniera drammatica con violazione dei diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti, quando vengono utilizzati come luogo di trattenimento di fatto. E’ stupefacente che purtroppo questa lacuna non sia stata mai sollevata a livello del dibattito politico e parlamentare.
Il resettlement è un sistema utilizzato dall’L’UNHCR per “sistemare” presso alcuni Paesi quote di rifugiati. L’Italia partecipa? 
No, l’Italia non ha mai avuto una politica di resettlement. Ha accettato sporadicamente alcune decine di rifugiati ma nessuna norma prevede il resettlement. La politica italiana non ha mai affrontato questo argomento, in qualche modo ritenendo “sufficienti” quelli che arrivano da soli.
E’ per questo che poi i richiedenti asilo sono costretti a venire in barca a Lampedusa? 
In parte. Perché se noi nei confronti dei paesi da dove provengono molti rifugiati facessimo delle politiche di reinsediamento, come chiede l’UNHCR, la pressione potrebbe diminuire. Il caso della Libia è emblematico. Avremmo potuto fare moltissime cose diverse da quelle pessime che abbiamo fatto per evitare tante tragedie.
Per creare un vero sistema di accoglienza, quali sono secondo lei i prossimi passi da compiere?
Dobbiamo cominciare a percepirci per ciò che siamo: un paese d’asilo, che non vuol dire paese invaso. Siamo un paese dell’UE di grandi dimensioni, esposto a sud. La politica dovrebbe prendere atto di questa realtà: cominciare a fare una programmazione congrua e unificare i diversi sistemi di accoglienza verso i sistemi territoriali. Tutto questo sarebbe perfettamente gestibile. Anche nel 2011, l’anno della cosiddetta emergenza, abbiamo avuto un numero di domande d’asilo assolutamente ragionevole e non superiore alla media di altri grandi paesi europei. Per chiarire il concetto: il numero delle domande di colf e badanti presentate in un solo mese tra il primo e il trenta settembre 2009 è stato superiore al numero dei richiedenti d’asilo che sono arrivati in Italia negli ultimi 10 anni.
di Francesca Materozzi