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Il diritto più avanti della politica

- 1 Giugno 2013

Lo ius soli? In Italia  c’è già. Ma è una notizia non pervenuta.

Lo ius soli è legge dello Stato dal 1992. O per meglio dire dal 1912: perché anche la vecchia normativa sulla cittadinanza, varata in età giolittiana e abrogata nelle fasi finali della Prima Repubblica, garantiva il diritto ad essere italiani per i giovani nati in Italia.
Sembrano averlo dimenticato (ma probabilmente non lo hanno mai saputo) coloro che, di fronte alle proposte di riforma e alle dichiarazioni del ministro dell’Integrazione, Cécile Kashetu Kyenge, gridano allo scandalo, al sovvertimento di una presunta “italianità” (di sangue): le richieste di modifica della normativa mirano ad estendere il “diritto di suolo”, non ad introdurlo ex novo. Chiedono solo un piccolo, modesto adeguamento ai tempi che cambiano: nessuna rivoluzione, nessun tradimento delle “nostre” (presunte) “radici”.
A ricordarci questa elementare verità sono i giudici del Tribunale di Lecce, che hanno fornito un’interpretazione “lungimirante” della legge: dimostrando che, a volte, la Magistratura può essere più avanzata della politica. Ma a questo punto sarà bene procedere con ordine.

Lo ius soli in Italia
L’accesso alla cittadinanza italiana è regolato dalla legge 91 del 1992. Come tutti sanno, l’impianto di questa norma si basa sul cosiddetto ius sanguinis o, più esattamente, sul diritto di discendenza: è italiano il figlio di padre italiano e/o di madre italiana. Chi nasce sul territorio nazionale, ma da genitori stranieri, non ha diritto alla cittadinanza. C’è però una importante eccezione, contenuta nell’articolo 4: «Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquisire la cittadinanza entro un anno dalla suddetta data» (cioè entro il compimento dei diciannove anni). Chi nasce sul suolo italico, dunque, può essere italiano. Deve però aspettare di diventare maggiorenne. E nel frattempo, deve risiedere sul territorio nazionale senza interruzioni temporali. Il diavolo, dice un vecchio adagio, si nasconde nei dettagli: e in questo caso, il dettaglio è il significato della paroletta “risiedere”. Vediamo meglio.

Il requisito della residenza ininterrotta
Tutti sanno che per essere residenti bisogna iscriversi all’Anagrafe: si tratta del cosiddetto “requisito formale”, in base al quale la residenza deve essere attestata e trascritta nei registri del municipio. I “faldoni” degli uffici comunali, però, servono solo per dare una veste formalizzata ad un requisito di sostanza: secondo l’articolo 43 del Codice Civile, infatti, si definisce residenza «il luogo in cui la persona ha la dimora abituale». Il Codice non parla di registri del Comune, ma fa riferimento a un dato di realtà. Dunque, quando la legge sulla cittadinanza parla di “residenza ininterrotta”, a cosa allude? Al requisito “formale”, cioè a quel che risulta negli archivi anagrafici, o al dato di fatto, cioè alla “dimora abituale” della persona interessata?
Non si tratta di un dettaglio da azzeccagarbugli, ma di un elemento che può cambiare il significato stesso della legge. Come abbiamo visto, chi nasce in Italia deve aspettare diciotto anni prima di chiedere la cittadinanza. E diciotto anni sono lunghi. In un arco di tempo così esteso, può capitare di essere cancellati dai registri comunali. Per «irreperibilità», dicono i funzionari. Per sbaglio, diciamo noi. Perché magari i genitori si sono dimenticati di comunicare all’anagrafe una variazione di indirizzo. O perché un bel giorno il vigile è venuto a casa, non ha trovato nessuno, e invece di fare ulteriori approfondimenti ha cancellato la famiglia dai registri.
Può anche accadere – e anzi accade molto spesso – che i genitori, nel corso del tempo, abbiano perso il permesso di soggiorno. E che dunque tutto il nucleo sia stato cancellato dall’Anagrafe.
Insomma, se si guarda al “requisito formale”, basta poco per cancellare un diritto, e per rendere “straniero” un giovane nato e cresciuto in Italia, che ha fatto le scuole italiane e che ha sempre vissuto qui.

La sentenza di Lecce, i giudici, il Ministero

A Lecce è successo proprio questo. Un ragazzo nato nel 1993 in un paese del Salento, da mamma filippina e da padre ignoto, non è stato iscritto all’Anagrafe perché la madre non aveva il permesso di soggiorno. Nel 1994 il minore, che all’epoca aveva un anno, è stato adottato da una famiglia italiana, e ha potuto così prendere la residenza. Poi, nel 2005, la madre è riuscita a regolarizzarsi, ed è tornata a vivere col figlio. Quest’ultimo ha sempre vissuto in Italia, ha frequentato scuole italiane, e non è mai stato nelle Filippine. È dunque cittadino di fatto, e al compimento dei diciotto anni ha chiesto di diventarlo di diritto.
Ma quel “buco” nel primo anno di vita ha fatto la differenza: il Comune ha contestato la mancanza del requisito di residenza ininterrotta, e ha condannato il giovane a rimanere straniero. Almeno fino all’intervento del Tribunale di Lecce, che ha ribaltato la decisione dell’Anagrafe: richiamando quel “requisito sostanziale” del Codice Civile, troppo spesso dimenticato dalle nostre amministrazioni.
La sentenza ha fatto il giro della rete, ma non è la prima né l’unica. Sullo stesso tema, e con le stesse argomentazioni, erano intervenuti, tra gli altri, il Tribunale di Imperia, quello di Reggio Emilia e la Corte di Appello di Napoli. Non solo. A fornire una interpretazione più estensiva della legge era stato persino il Viminale, che nel 2007 (all’epoca del Ministro Amato) aveva emanato due circolari: la prima riconosceva la residenza ininterrotta anche in caso di brevi assenze dal territorio nazionale; la seconda chiariva che «l’iscrizione anagrafica tardiva del minore potrà considerarsi non pregiudizievole ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana».
«Si è ritenuto opportuno», dicevano i funzionari del Ministero, «individuare criteri di applicazione della legge che meglio rispondano all’attuale contesto sociale, al fine di evitare che le omissioni o i ritardi relativi ai predetti adempimenti possano arrecare danno al minore».

La morale della favola

Le favole degli antichi greci si concludevano con una frasetta che tutti gli studenti dei Licei Classici sono stati costretti ad imparare a memoria: “o mutos deloi”, cioè “il racconto ci insegna che…”. Come le fiabe, anche questa storia dovrebbe insegnare qualcosa.
I parlamentari, i politici e i commentatori sono i primi a dover imparare la lezione: la cittadinanza, per chi nasce e vive in Italia, è un diritto, al di là di requisiti formali e burocratici. E un’estensione dello “ius soli” è un modo per adeguare la legge al “contesto sociale”, come diceva solo qualche anno fa il Ministero dell’Interno. Nulla di rivoluzionario, nulla di scandaloso, solo un adeguamento ai tempi che cambiano.
Ma a dover imparare qualcosa sono anche i Sindaci e gli amministratori “illuminati”: i tanti che hanno aderito alla campagna “L’Italia sono anch’io”, e che in questi anni hanno conferito la cittadinanza simbolica ai minori nati in Italia. È giusto chiedere una riforma della legge nazionale, ma mentre si aspetta il varo di una legge c’è una cosa che si può fare, subito: intervenire presso gli Uffici Anagrafe, affinché la legge esistente sia applicata in modo corretto. Guardando alla “luna” (ai diritti delle persone) e non al “dito” (alle formalità burocratiche).

Sergio Bontempelli