Caporalato

Il trionfo dell’etnico

Anselmo Botte - 26 Agosto 2013

L’ingresso lavorativo dei migranti, nell’agricoltura campana, risale agli inizi degli anni ’90 e interessa, in particolar modo, il casertano e il salernitano. Nel primo si concentreranno in prevalenza migranti provenienti dall’Africa subsahariana, nel secondo soprattutto dal Maghreb. Nelle grandi aziende resisteva il bracciantato italiano (soprattutto donne, non giovanissime: per intenderci le cinquantuniste, centuniste e in qualche caso centocinquantuniste.). I migranti vengono reclutati nelle aziende piccole e medie, in genere meno rispettose delle norme contrattuali, dove il lavoro nero è molto diffuso e la gestione del mercato è di competenza esclusiva dei caporali. I titolari delle aziende medio piccole si affidano esclusivamente all’attività dei caporali per intercettare lavoratori stranieri e questi si rivolgono dapprima ai supposti leader delle comunità presenti sul territorio, che si trovano così a svolgere una sorta di intermediazione di secondo livello. Col tempo i leader soppiantano i caporali locali, trasformandosi a loro volta in caporali. Nasce così il caporalato etnico.

Il lavoro dei migranti nell’agricoltura campana viene a innestarsi su un malcostume radicato: quasi tutti i migranti sono in una situazione d’irregolarità e questo li rende più ricattabili, adatti a trasformarsi in una manodopera “invisibile” funzionale alle esigenze delle aziende agricole, caratterizzate da attività che si sviluppano ed esauriscono nell’arco di poche giornate lavorative, praticate in fondi diversi, spesso molto distanti fra loro. Le funzioni ispettive e di controllo inesistenti e lo smantellamento del collocamento pubblico favoriscono questo stato di cose. La sanatoria del 2002 non fa che peggiorare le cose. Come è noto fu la prima a vincolare la regolarizzazione con l’obbligo della stipula di un contratto di lavoro. Caporali e datori di lavoro disonesti, ma anche la delinquenza comune e organizzata, imbastirono una truffa colossale fatta di falsi contratti, aziende inesistenti e laute tangenti estorte ai migranti, i quali pur di regolarizzare la propria posizione non badarono a spese (per ogni contratto sborsarono ai caporali 2-4mila euro). Nel casertano fece scalpore una richiesta di regolarizzazione per un centinaio di migranti avanzata dal cosiddetto “Sandokan”, esponente di spicco della camorra campana. Dopo quella sanatoria, tutti gli ingressi di manodopera nel settore primario attraverso i flussi per lavoro stagionale si sono caratterizzati con le stesse modalità: migranti taglieggiati, costretti a pagare fino a diecimila euro per ingressi il più delle volte a tempo, e spesso anche falsi.

In questo modo si alimenta ininterrottamente il serbatoio della irregolarità dei migranti: i caporali etnici hanno assunto un ruolo fondamentale in questo colossale imbroglio, sono loro che hanno i contatti con i connazionali interessati a venire nel nostro paese, e sono sempre loro a gestire tutte le fasi degli ingressi. Si produce in questo passaggio una sottomissione incondizionata dei migranti al loro caporale, una vera e propria riduzione in schiavitù. Sta in questo l’elemento di novità caratterizzante il caporalato etnico: il ricatto esistenziale, legato alla regolarizzazione, al permesso di soggiorno, va al di la dello sfruttamento economico sociale e lo proietta in una associazione delinquenziale transnazionale riconducibile alla tratta di esseri umani ai fini di sfruttamento lavorativo.

Nelle campagne campane il caporalato etnico ha soppiantato quello nostrano imponendo una forte regressione per quanto riguarda i diritti, la paga giornaliera è ferma da più di un decennio a 25 euro, per un orario che spesso raggiunge le dieci ore, mentre risulta in espansione il cottimo. La schiavizzazione dei braccianti stranieri ha pesantemente drammatizzato il fenomeno del caporalato, la violenza dei caporali etnici ha provocato la morte di decine di migranti -quelli che hanno tentato di opporsi- e una frattura nel mondo dell’immigrazione e all’interno delle stesse etnie. E’ evidente che il lavoro nero fa da corollario al fenomeno creando un binomio inscindibile tra l’attività informale, che rappresenta ormai un elemento strutturale del mercato del lavoro agricolo, e l’immigrazione irregolare che ne viene disgraziatamente attratta.

In questo contesto di estrema instabilità esistenziale il problema dell’alloggio assume conseguentemente le caratteristiche di una sistemazione di estrema provvisorietà. La totale assenza di strutture di accoglienza sul territorio campano, l’indisponibilità dei datori di lavoro agricolo ad offrire soluzioni abitative, ha evidenziato la drammaticità relativa alla ricerca di alloggi. Abitazioni di scarsa qualità nei centri urbani e forme di autorganizzazione tra i migranti, drammi abitativi che si traducono in ghetti sulla Domiziana e nella Piana del Sele. L’indifferenza delle istituzioni e lo stato di abbandono esistenziale dei migranti hanno fatto di questi luoghi delle “discariche umane”. Ciò rende il quadro sanitario drammatico, aggravato dall’assenza di prevenzione per quanto riguarda la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro: sostanze chimiche molto tossiche, maneggiate con estrema disinvoltura.
Uscire da questa situazione non sarà semplice: a parte pochi e selezionati contesti, si continua a parlarne poco. Il lavoro agricolo sembra sparito non solo dalle analisi socio-economiche, ma dalla circolazione.

Anselmo Botte

 

 

 

Articolo già pubblicato su Corriere Immigrazione.