Razzismo on line

In tempi di anarchia e di sangue

Giuseppe Faso - 20 Novembre 2013

Fist to FistMi raccontava, poche settimane fa, una maestra di sostegno che segue un corso di formazione, del “minuto di silenzio” per le vittime di Lampedusa nella sua scuola. Finito il quale, una bimba di nove, forse dieci anni, ha sentenziato: «Di sicuro avevano con sé le bombe!». Al che la maestra di classe ha aggiunto: «Forse non tutti, ma qualcuno sì». Che fare, in queste situazioni? chiedeva angosciata la mia interlocutrice. Sono riuscito solo a chiederle di non cedere alla tentazione di giudicare duramente. Quando alcune soglie critiche vengono superate, stupirsene significa cancellare le proprie responsabilità per avere assistito al percorso precedente, a tutti i gradini che a quella soglia impensabile ma realizzata hanno condotto, senza cercare di denunciarli, passare parola, trovare alleanze per mettere in qualche modo in questione un movimento osservabile. Si ricade nella logica dei media, si consuma il proprio stupore per ciò che si presenta come una novità, ci si avvolge in un senso di impotenza, si costruiscono presunte barriere tra l’inumanità dei linguaggi e delle reazioni e la propria sensibilità. Si mette al riparo chi per anni, quando si poteva, di ripari non ne ha costruiti. Si attribuisce l’orrore non a ciò che con esso abbiamo in comune, ma a ciò che ce ne separerebbe: ma così si arretra dall’analisi sociale alla proclamazione dell’indole, del carattere. Della natura. A reagire in questa maniera disumanizzante – e perciò a rivelare la propria stessa disumanizzazione – non è certo la natura delle persone. Di nulla sia detto: “è naturale” / in questo tempo di anarchia e di sangue, ammoniva uno scrittore dialettico oggi quasi dimenticato (Bertolt Brecht, ndr). Si ha paura a guardare in faccia l’aspetto storico-sociale della demenza e del teppismo che emergono dai commenti agli articoli di giornale, dal protagonismo criminale di chi non ha altro da fare del suo tempo che prendere lui, o lei, la parola per invitare coloro che gli corrispondono all’offesa, allo strazio persino dei cadaveri. Dentro questa storia c’è anche ciascuno di noi; quella società contribuisce a costruirla, giorno per giorno, anche chi se ne dice minoranza estrema. Viviamo di relazioni disumane e criminali, e ci tocca lavorarci sopra senza nasconderci dietro la nostra differenza dalla loro disumanità. Non siamo così in natura, e in questo non c’è un noi da salvare da un loro. Anche il noi che vorremmo derubricare in loro non è così in natura. Bisogna lavorare sui mille gesti, le mille accettazioni, le mille omissioni che ci hanno condotto a questa situazione: e che non appartengono a un passato irrevocabile, perché ne troviamo non solo le tracce e gli effetti, ma le dinamiche nella nostra vita quotidiana. Per motivi di metodo, bisognerà dirsi, e per amore della speranza, convincersi che non è troppo tardi. In che cosa abbiamo lasciato prevalere la disumanità? In quali occasioni siamo stati accondiscendenti con i segni, eppure così visibili, del crimine? Perché abbiamo tante volte lasciato perdere davanti a dialoghi che conducevano ai linguaggi attuali? Come se le parole discriminatorie non fossero anche gesti, non chiamassero a un consenso, sia pure passivo. Come se fossero il segno di una insufficienza, e non anche momento della produzione di un consenso, spinta effettuale ad accettare soglie sempre più arretrate. E tutto, naturalmente, in proporzione alle responsabilità umane e civili, differenziate, dei nostri interlocutori.

Giuseppe Faso