Palermo

Zeta Lab, fine di un capitolo

Amalia Chiovaro - 1 Dicembre 2013

lab-_zetaVia Boito n° 7, la palazzina in cui era situato il centro si trova nel quartiere Malaspina, a pochi passi dalla centralissima Via Notarbartolo. Il Laboratorio Zeta era il luogo sempre aperto ed accogliente in cui incontrarsi, pensare iniziative, realizzare quello che decenni di amministrazioni inadempienti non avevano voluto o potuto garantire ad un pezzo di Palermo. «La ragione di questa decisione consiste principalmente nell’impossibilità di continuare a coniugare le attività del centro sociale con l’accoglienza di rifugiati politici e quindi con la dimensione abitativa», si legge nel comunicato, pubblicato sul sito del collettivo, che ha dichiarato conclusa l’esperienza dello Zeta Lab, così era chiamato lo stabile che l’ha ospitato per oltre dieci anni.
Si tratta di un centro sociale nato nel 2001, considerato fin da subito uno dei centri pulsanti della città, che ha preso forma dall’incontro di diverse anime, esperienze e realtà sociali, tutte accomunate dalla voglia di cambiamento e da “no” risoluti verso razzismo, guerra, globalizzazione e ingiustizia sociale. Un gruppo che si è organizzato, fin da subito, in base al principio dell’autogestione e al potere decisionale dell’assemblea.
Ma lo Zeta Lab è stato anche di più, e chi l’ha vissuto o semplicemente attraversato questo lo sa. Laboratorio di idee, spazio politico e aggregativo, ha assunto negli anni un ruolo esemplare rispetto a pratiche di accoglienza e inclusione sociale, in materia di politiche migratorie.
Era il primo marzo 2003, quando una cinquantina di Sudanesi, riunitisi davanti alla Prefettura di Palermo, chiedevano asilo politico e un’accoglienza degna di uno Stato democratico. Di fronte al silenzio dell’amministrazione, lo Zeta Lab si fece carico di questa emergenza, pur non essendo attrezzato allo scopo. Gli stanzoni umidi, nel giro di poco tempo, divennero i luoghi più “caldi” che la città potesse offrire loro. Quell’ospitalità immaginata provvisoria si trasformerà in definitiva, dando vita a una lunga esperienza di cogestione.
Circa seicento migranti, provenienti da diverse parti del mondo, hanno attraversato, negli anni, questo spazio che, grazie al contributo di molti volontari e militanti, è divenuto oggi un luogo simbolo. La sua storia, infatti, è un intrecciarsi di percorsi di singoli e associazioni che ne hanno fatto casa propria.
È stato promotore di manifestazioni di ogni tipo e diversi progetti sono decollati da lì, esempio ne è il caso della Rete Antirazzista Siciliana, protagonista di numerose vertenze locali e nazionali.
Tra sgomberi e ri-occupazioni, – si tratta di uno stabile mai assegnato formalmente a scopi sociali – lo Zeta è riuscito a costruire uno spazio pubblico per la città, regalandole concerti, dibattiti, presentazioni di libri, cineforum, una biblioteca, una scuola di italiano per stranieri e uno sportello legale. Una grossa perdita, questa, per una città già sofferente, carente di servizi sociali e di spazi d’aggregazione. Ma suo contributo lo si è visto anche su altri fronti sociali, come quello della lotta antimafia, terreno su cui il centro è sempre stato molto determinato, dei senzacasa e dei beni comuni.
Dario Librizzi, una della anime del collettivo, spiega così le ragioni della chiusura e ci chiarisce: «Lo Zeta Lab non è nato per fare accoglienza, gli spazi erano stati pensati e destinati ad altre attività. In più di dieci anni, nessuna amministrazione ha trovato alcuna struttura da destinare ai ragazzi sudanesi, ritrovandoci a supplire questo vuoto istituzionale. Ma adesso non è più possibile. Da una parte questa decisione nasce dall’impossibilità di occuparsi di accoglienza, e dall’altra da una sofferta convivenza e dall’incapacità di trovare regole comuni. Attualmente sono rimasti circa sette sudanesi nei locali e con alcune di queste persone ci sono stati problemi personali molto gravi. Negli ultimi due anni lo Zeta è diventato un bivacco vero e proprio, non più un punto di partenza per provare a cambiare la propria vita, ma uno stallo». Ma si ragiona anche di futuro altrove per lo Zeta: «Stiamo ragionando – continua Dario Librizzi – su varie ipotesi. Il collettivo continua a riunirsi, discute e partecipa alla vita politica della città. Insomma lo Zeta Lab esiste e resiste». Oggi lo stabile di via Boito è diventato sede del Centro Culturale Sudanese Baobab. Lo spazio, infatti, è stato lasciato agli ultimi profughi sudanesi rimasti, declinando a loro ogni responsabilità nella gestione, come è stato dichiarato. «Le lotte dello Zeta – però – continueranno ad essere portate avanti, ma in altre forme, in altri luoghi e con altri nomi». Lo hanno promesso.

Amalia Chiovaro