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Quando il corpo è delle altre

Noemi De Simone - 1 Dicembre 2013

15b7ea9acfce7d905630dc7ffdf7caI più recenti dati Unicef ci dicono che il fenomeno delle modificazioni genitali femminili (mfg) si sta ridimensionando in tutto il mondo. La questione però è tutt’altro che risolta e riguarda, con i suoi terribili corollari sul piano della salute del corpo e della mente, anche i paesi di immigrazione, come l’Italia. In quali termini numerici, non è chiaro. La ricerca del 2009, commissionata dal ministero delle Pari Opportunità all’Istituto Piepoli, parla di circa 110 mila donne presenti sul nostro territorio che avrebbero subito una modificazione genitale, e di 4.600 potenziali “vittime” sotto i 17 anni. Altri studi danno numeri differenti. Per esempio, il dossier della onlus Albero della Vita, dello scorso anno, calcola quasi ottomila potenziali vittime. In ogni caso, a prescindere dalle cifre, il problema esiste e va affrontato. La vera questione è: in che termini? A partire proprio dalla scelta dei termini verbali. Non sappiamo se ci avete fatto caso, ma qui noi stiamo usando un’espressione poco abituale per parlare di infibulazione e dintorni. Non mutilazioni genitali, ma modificazioni. È una scelta che non nasce da un intento giustificativo o dalla sottovalutazione del problema, bensì dalla volontà di coglierlo nella sua portata culturale e antropologica, che è un elemento da cui non si può prescindere se si vogliono ottenere risultati concreti e non solo riscontri di tipo propagandistico o elettorale. Michela Fusaschi, antropologa e attenta studiosa dei fenomeni di costruzione sociale del corpo, lo spiega molto chiaramente nell’intervista che segue.

Escissione, clitoridectomia, infibulazione. Sono varie le pratiche comprese nell’espressione “mutilazioni genitali femminili” utilizzata dall’Oms. Ciò che le accomuna è lo scopo di ledere l’organo genitale femminile. È così?
«Io sono un’antropologa e l’antropologia studia i simboli e quel che ci dicono sulla società che li genera. Premesso che non è indispensabile intervenire fisicamente sui corpi per istituire le condotte – vedi l’abito bianco per le spose, ci sono luoghi del mondo dove l’organo genitale femminile non è visto “allo stato di natura” e viene perciò “attaccato” per renderlo conforme ad un certo modello. Ledere l’organo genitale femminile non è l’obiettivo, casomai la conseguenza. Se una donna viene infibulata, avrà nella maggioranza dei casi delle conseguenze sanitarie gravi, ma paradossalmente per quella società il suo corpo sarà “liscio e pulito”. Bisognerebbe parlare con le donne di quelle comunità, che non sempre si sentono “mutilate”. Un altro grande errore è metterle tutte insieme: hanno nomi e rituali diversi, non in tutti i villaggi si praticano. Così come non è vero che le mgf sono un fenomeno esclusivamente africano».

Quindi non è una questione meramente funzionale?
«L’infibulazione ha una finalità estetica: il corpo “liscio” è più bello, perché le parti pendule farebbero assomigliare l’organo genitale femminile a quello dell’uomo. Prima di parlare della modifica irreversibile dei genitali, bisognerebbe però parlare della vita sociale di queste donne e dei rapporti tra i generi. I genitali sono l’ultima cosa. Noi siamo l’unico paese che ancora parla delle mfg in termini di salute, mentre altri hanno già fatto il passaggio from health to human rights (dalla salute ai diritti umani)».

Le conseguenze fisiche sono nefasta per tutte le mgf. In questo sono tra loro assimilabili?
«L’Oms annovera tra le mgf anche altre pratiche molto diverse per scopo e ‘tecnica’. In Rwanda, per esempio, esiste un massaggio rituale praticato a pochi giorni dalla nascita. Si chiama gukuna, che significa “assicurati di non essere nuda”. Ha lo scopo di allungare le piccole labbra – non di tagliarle – e di aumentare il piacere orgasmico. È un rituale fatto dalle donne per le donne, eppure l’Oms lo considera una pratica nefasta. Ritengo che il Bando Universale (Risoluzione Onu 2012 sulla messa al bando delle mfg, ndr) sia l’ennesimo mezzo colonialista dell’Europa per dire agli altri cosa non fare».

Le mgf sono “riti di passaggio” dall’infanzia all’età adulta?
«Anche questa è una credenza diffusa ma non esatta. Le mgf  non sono riti di passaggio: non trasformano le bambine in adulte, ma in donne. Le mgf sono dunque degli atti di istituzione, perché istituiscono il genere. Separano le bambine dalle donne. Se fosse l’adultità, perché farlo a due giorni dalla nascita? Come dicevamo prima, ledere l’organo è la conseguenza, non l’obiettivo. L’obiettivo paradossale è quello di ‘crearlo’».

Nelle ultime campagne umanitarie, si sta cercando un approccio olistico. Questo comporta mettere insieme alle mgf anche i matrimoni minorili e i delitti d’onore. La convince questo approccio?
«Mettere tutto nello stesso calderone è un grande errore e nasconde una profonda ignoranza. A mio avviso, l’effetto è quello di sminuire ciò contro cui si combatte. Parlare ad esempio di mutilazioni genitali perpetuate durante i conflitti etnici è un altro grosso errore, perché non hanno niente a che fare con le mgf. Sicuramente, il fatto di aggiungere eventi diversi aumenta il drenaggio di fondi alle ong. È una questione di marketing dell’umanitario!».

Nel libro Quando il corpo è delle altre, lei paragona gli interventi rituali in Africa alla chirurgia estetica intima a scopo non-terapeutico. Sembrano due immaginari molto differenti.
«Sempre più adolescenti inglesi tra i 14 e i 18 anni, si fanno ritoccare – l’Oms direbbe “a scopo non terapeutico” – con il consenso dei genitori. Dal punto di vista di un’antropologa, il clitoris repositioning (riduzione delle piccole labbra e della dimensione della clitoride, ndr) è l’ablazione parziale della clitoride. Dal punto di vista simbolico, in entrambi i casi si vuol rendere il corpo appropriato ai modelli culturali di riferimento. Sono gli stessi chirurghi estetici a dirlo: “Lavoriamo sui punti di femminilità. Ci ispiriamo al corpo ideale e lo rendiamo più proporzionato”. Ovvero, più conforme. In occidente il corpo ideale è simbolizzato da Barbie, dove non a caso i genitali sono invisibili. Stiamo assistendo ad una Barbie-zzazione del corpo femmininile che si vuole sempre più “giovane” anche nelle parti intime. La domanda allora è: dove sta la lunga mano del patriarcato? Nelle mgf, nella chirurgia estetica o in tutte e due? Perché ci si mobilita se si taglia un pezzo di corpo in Africa a fini rituali e non non si lanciano campagne sulle modificazioni genitali a fini estetici? L’America e la Gran Bretagna in questo senso stanno cominciando a muovere i primi passi».

La volontà potrebbe essere la discriminante tra i due fenomeni?
«Perché una madre occidentale può acconsentire all’operazione a scopo estetico della figlia adolescente e una madre somala invece no? Se vietiamo l’una, dovremmo vietarlo anche all’altra. Se siamo contrari alla mutilazione, dobbiamo esserlo a prescindere dal colore della pelle. L’ablazione parziale della clitoride può avere le stesse conseguenze. I medici estetici dicono: “Le conseguenze possono essere simili, ma la differenza sta nello scopo. Noi lo facciamo per rendere la parte più appropriata, gli altri lo fanno per ledere”. Dal mio punto di vista, questa si chiama retorica. Come mai usando termini americani come clitoris repositioning, sala operatoria, bisturi o laser, si diventa padroni del corpo, mentre dall’altra parte del mondo si diventa carnefici?».

Si potrebbe comunque obiettare che in Inghilterra e in America è la minore che chiede/desidera l’operazione. Mentre le bambine in Africa e Asia non hanno diritto di scelta.
«Le bambine non decidono, è vero. Però i processi di incorporazione dei modelli sono gli stessi. Ognuno di noi apprende in maniera inconsapevole ciò che la società ci dice sul corpo: questo spiega perché un atto si fa in maniera “abitudinaria” (“si fa perché si deve fare”). Una bambina africana non ha ‘bisogno’ di chiederlo. Allo stesso modo, in Occidente è il mercato che induce la donna a determinate modificazioni per risultare accettabile. È più grave a questo punto che lo dica la società o che lo dica il mercato?».

Nell’immaginario occidentale risulta tuttavia complesso associare una mutilazione rituale a un intervento di chirurgia estetica.
«Ricordo il caso di una donna norvegese che chiese un intervento chirurgico perché non si sentiva ‘adeguata’ con se stessa. Le vennero tagliate le piccole labbra e la clitoride. Dopo l’operazione, sentendosi ‘mutilata’, fece causa ma ottenne soltanto un risarcimento civile. Se fosse stata una donna somala, il medico sarebbe stato radiato e avremmo parlato di infibulazione medicalizzata. In Inghilterra, dove ogni anno cinquecento ragazzine si sottopongono alla clitoris repositioning, una collettività di donne migranti hanno chiesto la stessa operazione e se la sono vista rifiutata. Se diciamo “Il corpo della donna non si tocca!”, lo dobbiamo dire per tutte. E nella legislazione, non scriviamo che riguarda le immigrate. In questo sensi, la legge 7/2006 che in Italia vieta le mgf è razzista: sono i giuristi a dirlo».

Cosa risponde a chi dice che un rito così ancestrale e “di passaggio” ha poco a che fare con le questioni di genere?
«Le mgf hanno sempre a che fare con il genere: lo costruiscono e lo differenziano. Le operazioni femminili vengono fatte dalle vasaie, perché il vaso è simbolo di accoglienza. Le operazioni maschili, invece, dal fabbro, perché il ferro è simbolo di potenza».

Alla luce del portato simbolico di questi segni sul corpo, che valore possono avere dei riti alternativi?
«I rituali alternativi devono comunque avere una valenza simbolica. Nel 2004 il medico somalo Omar Abdulkhadir propose la puntura rituale, tecnicamente simile a un piercing ai genitali. Parlava di “riduzione del danno”. La proposta era valida, ma non poteva evere un’efficacia universale. Per esempio, se la prerogativa è quella di conservare un corpo chiuso, come avviene con l’infibulazione, la semplice puntura è “inaccettabile”. Un rito alternativo può risultare efficace solo se negoziato con le comunità locali».

Perché lei ha scelto di parlare di modificazioni e non di mutilazioni genitali?
«Sono personalmente convinta che “togliere un pezzo di corpo” rappresenti una mutilazione. Ma nell’ottica di un relativismo culturale – che non è giustificazionismo – modificazioni è un termine neutro. Se parlo con una donna di mutilazioni e quella donna non si sente mutilata, non mi metto in una posizione di dialogo. Parlo su di lei. Non con lei. Il termine modificazioni non toglie nulla alla gravità dell’atto, ma fa sì che se parlo con una donna infibulata non le do automaticamente della “brutta mutilata”. ll black feminism per molto tempo ha criticato quello che con un ossimoro potremmo definire l’“universalismo etnocentrico” del femminismo europeo. Lo stesso etnocentrismo che sta alla base del Bando Universale. L’effetto può essere più grave delle intenzioni: la clandestinità di queste pratiche. L’emancipazione va sempre e comunque vista con gli occhi degli altri. E delle altre».

Noemi De Simone