Questioni aperte

Seconda (generazione) a chi?

Rania Guenboura - 16 Dicembre 2013

Nuova legge sulla cittadinanza e seconde generazioni. Se ne parla a Roma, il 18 dicembre, in occasione di un incontro, promosso dalla campagna L’italia sono anch’io nella Giornata internazionale dei diritti dei migranti: L’Europa sono anche io, dall’emergenza alla cittadinanza. Parteciperanno il Ministro  per  l’Integrazione Cécile Kyenge, il portavoce della Campagna, Carlo Feltrinelli e numerose altre personalità del mondo associativo e delle istituzioni. Parteciperanno anche esponenti della rete G2, che raccoglie le cosiddette seconde generazioni. Questo termine però non convince tutti. Ecco, a proposito, cosa ci ha scritto Rania Guenboura, nostra giovane collaboratrice e attivista di Occhio ai Media.

Sono italiana e basta

«L’immigrato ha un mondo del passato a cui appartiene e un mondo del presente al quale sempre, più o meno, sarà estraneo; suo figlio invece sta in tutti e due e molte volte in nessuno. Per questo c’è bisogno che il processo di integrazione abbia successo, in modo che la seconda generazione non resti chiusa nel ghetto».

Queste quattro frasi di Antonio Muñoz Molina spiegano tutto. I figli degli immigrati si sentono stranieri sia nel paese di origine dei genitori sia in quello di nascita. Ma questo la maggior parte degli italiani non lo capiscono, o meglio non lo vogliono capire. Non si rendono conto di quanto i cosiddetti ragazzi di seconda generazione soffrano. Solo questo modo di definirli G2 li fa sentire diversi, perché loro in realtà non sono G2, sono ragazzi, ancora meglio, italiani. Italiani più fortunati di altri, perché conoscono una lingua in più e conoscono un’altra cultura, tutto qui. Ma poi, cosa vuol dire seconda generazione? L’atto del generare è il processo per cui esseri viventi producono esseri viventi della stessa specie, e non credo che gli immigrati danno alla luce figli di una specie diversa dagli italiani. E se proprio vogliamo dirla tutta neanche gli italiani sono italiani, chissà di che generazione sono, c’è chi avrà gli antenati longobardi, chi germanici, chi ostrogoti, ma non li chiamiamo trentesima generazione dei longobardi, ma bensì italiani, e questo appellativo è giusto che venga attribuito anche ai figli degli immigrati, eliminando dal nostro vocabolario l’espressione “seconda generazione”.

Proviamo a metterci per esempio nei panni di un ragazzo italiano con i genitori di origine marocchina. Durante tutto l’ anno si sente italiano, ma tutti i giorni ci sarà qualcuno che con disprezzo gli ricorderà di non esserlo al cento per cento e quando in estate si reca in Marocco per le vacanze non viene ritenuto marocchino ma bensì italiano. Come si dovrebbe sentire questo ragazzo piuttosto confuso? Italiano o Marocchino? Ciò che bisogna capire è che un ragazzo con genitori stranieri nato in Italia o cresciuto in Italia ha fatto le scuole in Italia, ha amici in Italia, la sua casa è in Italia e non mi sembra di aver scritto Marocco o Albania o Tunisia, ma solo Italia. Questo significa che è solo ITALIANO, perché se va nel paese di origine dei genitori, si sente perso, non sa come spostarsi da un posto all’altro, non può uscire se non accompagnato da un famigliare, ma in Italia queste cose le può fare tranquillamente, senza sentirsi disorientato o estraneo, perché l’Italia è casa sua. Gli italiani devono accettare questa cosa, che lo vogliano o no, perché la realtà è questa. E poi che vita noiosa sarebbe senza i figli degli immigrati, o degli immigrati stessi? Le mamme italiane non avrebbero la ricetta del couscous o di un qualche dolce tipico straniero datogli da un compagno di classe dei loro figli, non si mangerebbe il Kebab o il cibo giapponese e cinese, tra l’altro amato dai giovani di oggi, a scuola non ci sarebbero i ragazzi che traducono le parole di altre lingue, per esempio arabe, incontrate nei libri di storia mentre si studia la Riconquista Spagnola. L’Italia deve sfruttare al meglio questa ricchezza che questi ragazzi hanno ed apprezzarli. Perché anche loro sono italiani, come tutti gli altri. Quindi, basta farli sentire diversi.

Lo scrive una che lo vive tutti i giorni sulla propria pelle.

Rania Guenboura