Va pensiero

Storie ambulanti, cicatrici che restano

Francesca Materozzi - 16 Dicembre 2013

Ba-copertina«Dopo aver visto questo film nessuno potrà dire che non sapeva» dichiara Mohamed Ba (nella foto) ad una troupe della Rai poco prima della presentazione del documentario Va pensiero, storie ambulanti. Lui è uno dei protagonisti assieme a Mor Sougou e Cheikh Mbengue. L’anteprima si è tenuta al Auditorium Stensen a Firenze il 13 dicembre. Una data non casuale: è il secondo anniversario della strage di piazza Dalmazia. Il giorno in cui un fanatico fascista, Gianluca Casseri, uccise Mor Diop e Moudu Samb e ferì Mor Sougou, Cheikh Mbengue e Moustapha Dieng. Quest’ultimo, da allora infermo, è ancora sottoposto a cure. Questi sono i fatti che ormai tutti conoscono e che sono entrati nella memoria collettiva. Allora a cosa si riferiva Mohamed quando faceva quell’affermazione? Ai giorni dopo la strage. A quel che rimane nel ricordo e nel corpo di chi un attacco razzista lo subisce. A come si sopravvive al trauma e si ricomincia a vivere.

La storia che Mor e Cheikh è stata riportata da tutti i media nazionali. Si trovavano al mercatino di San Lorenzo quando Casseri, che aveva già ucciso ore prima in piazza Dalmazia, si presenta davanti a loro e senza proferire parola estrae un’arma e comincia a fare fuoco. Lo vedono e iniziano a scappare ma i proiettili li raggiungono.

Và_Pensiero_webLa storia di Mohamed Ba, invece, è rimasta maggiormente nell’ombra. Un giorno di primavera del 2009, a una fermata dell’autobus nel centro di Milano, un uomo con la testa rasata lo accoltella. Senza un litigio, senza un apparente motivo. Solo il disprezzo di cui era impregnata l’unica frase, che poco prima del gesto, il criminale pronuncia: “qui c’è qualcosa che non va”. E quello che non va è presto detto. Mohamed è uno straniero ed è nero. Dopo aver ricevuto due coltellate Mohamed rimarrà a terra per un’ora prima di riuscire a chiamare la polizia e a chiedere aiuto. Durante i giorni della degenza in ospedale nessuno gli chiederà conto di quell’aggressione. I giorni di prognosi sono 19, uno meno di quelli che sarebbero stati necessari per far aprire una indagine d’ufficio. Non verrà mai trovato il colpevole. Casseri invece si suiciderà nel parcheggio sotterraneo del mercato e con la sua morte, porterà con sé il mistero di un atto assurdo pieno di odio ideologico e razzista.

Ma la storia non finisce qui. Calato il sipario sulle manifestazioni e le reazioni popolari a Firenze, finite le poche pratiche burocratiche anaffettive e sterili a Milano, cosa resta? Rimane lo sconcerto di chi improvvisamente e senza un razionale motivo ha visto irrompere nella propria vita la violenza e si è trovato di fronte la morte. La quotidianità si impregna della solitudine, di perché che girano nella testa e non trovano una risposta. Le ferite anche se si rimarginano si trasformano in cicatrici che stanno lì sul corpo, ripresentando quotidianamente tutto il loro carico di dolore e paura. Emerge il frastornamento di chi è preso nel mezzo da qualcosa di troppo grande e incomprensibile, il terrore di ritrovarsi ancora nella solita situazione. Del resto non c’era motivo che succedesse una prima volta, per cui come non aver paura che riaccada. Ed è da qui che bisogna ricominciare riallacciando i fili della propria esistenza cercando in sé la forza di andare avanti. Piano piano si ritorna a lavorare, a provvedere alla propria famiglia, magari la si allarga con un nuovo nato o la si ufficializza con le nozze.

Nell’intimità di questo solitario percorso il regista Dagmawi Yimer riesce ad aprire un varco. Con la dolcezza e la poesia che ha sempre contraddistinto il suo lavoro, riesce a renderci partecipi dei pensieri e dei sentimenti dei protagonisti. Prende per mano e accompagna lo spettatore durante quelle conversazioni personali fatte in cucina, in camera o in un parco pubblico. Sembra di essere lì come se si trattasse di confidenze fatte da amici. Si viene talmente coinvolti da quella familiarità da quasi non rendersi conto di essere solo spettatori. Diventiamo partecipi con i tre protagonisti mentre preparando da mangiare o mettendo a letto il figlio e riflettendo su quello che è successo, cercano di trovare un senso o almeno una via di fuga da qualcosa da cui si vorrebbe ma non si può tornare indietro.

Tutto questo avviene con le due città, Firenze e Milano, che fanno da sfondo. Come da sfondo fa la cronaca di quel 13 dicembre, le manifestazioni che ne seguirono, le dichiarazioni e la politica. Tutto ciò rimane presente ma distante, fa da contorno mentre scorrono le note e le parole di Va Pensiero che riesce a ritrovare dopo secoli il suo senso e il suo essere. Questo inno alla libertà, che per decenni è stato usato per fini di propaganda, sembra in questo film prendersi la sua rivincita e ritornare ad essere quello che era all’origine.

Dagmawi Yimer anche in questo documentario, dopo Come un Uomo sulla Terra (2008), C.A.R.A. Italia (2009), Soltanto il mare (2011), continua a farci conoscere i fatti, le storie e le persone che ci circondano quotidianamente, da un altro punto di vista. Quello dei migranti si cui spesso si parla ma a cui di rado si chiede. Dando loro l’opportunità di raccontarsi ci obbliga, nel senso di imperativo interiore, a guardare in faccia l’effetto del razzismo su chi lo ha subito e ora deve superarlo e continuare a vivere. Ci mostra anche che, pur andando avanti, le cicatrici non spariranno mai.

Francesca Materozzi