Compleanni

L’immagine dell’Africa

Stefania Ragusa - 20 Gennaio 2014

270257_10200264081426227_356759542_nCompie dieci anni il blog Immagine dell’Africa, uno strumento che nel tempo ha contribuito  a modificare l’immagine stereotipata del continente presso il pubblico italiano. Abbiamo intervistato il suo fondatore/ideatore, Daniele Mezzana.

Come è nato questo blog, e perché?

«Ho lavorato e lavoro in Paesi africani dal 1979, come ricercatore e formatore, con il Cerfe. Durante tutti questi anni, ho potuto notare che il pensiero ricorrente sull’Africa, qui in Italia, non corrisponde alla realtà delle società africane. E non basta semplicemente andare in Africa per correggere lo sguardo: se i tuoi a priori non sono adeguati, anche se risiedi per 5 anni in loco, continuerai a non comprendere. Bisogna andare oltre. Una occasione importante, per me, fu la lettura del Rapporto MacBride negli anni ‘80. Era un rapporto di una commissione promossa dall’Unesco che mostrava gli squilibri esistenti nella circolazione dell’informazione nel mondo (gestita da poche centrali nei Paesi del Nord), e nel modo in cui i diversi Paesi delle diverse aree del pianeta vengono rappresentati dai media. Erano anni in cui, alla riflessione su un possibile “Nuovo ordine economico internazionale”, si provò ad elaborare strategie per un “Nuovo ordine mondiale dell’informazione e della comunicazione”, ma senza successo. Tuttavia, fu importante lanciare e approfondire questioni importanti come la necessità di rafforzare i sistemi autonomi di informazione dei Paesi del Sud, modificare la deontologia degli operatori dell’informazione, rafforzare la cooperazione e il rispetto delle diverse culture sul versante della comunicazione internazionale, ecc.
Altra esperienza fondamentale fu, da questo punto di vista, la partecipazione alla rivista Società africane, pubblicata online negli anni 2002-2003. La rivista affrontava il problema della conoscenza delle società africane nel loro dinamismo e nella loro complessità: non solo l’Africa della tradizione, della povertà, delle guerre e dei villaggi, ma anche quella delle città, degli amministratori locali, degli imprenditori, dei sia pur faticosi processi di democratizzazione, del confronto con la modernità. E soprattutto un’Africa plurale, diversificata, non un’entità unica e cristallizzata. Dopo la conclusione di questa esperienza, per cause di forza maggiore, nel 2004 ho deciso di proseguire la riflessione sullo specifico aspetto delle rappresentazioni sociali dell’Africa e degli africani, e ho pensato di usare uno strumento, allora abbastanza innovativo, come il blog: per parlare di sterotipi e di come superarli, per parlare degli africani come attori e non solo come recettori dell’attivismo altrui. Temi purtroppo ancora attualissimi, mi sembra. Ed eccoci qua, dopo 10 anni e 471 post, nell’era dei social networks, che utilizzo un po’ come una sorta di prolungamento del blog».

Cosa è cambiato nel tempo, secondo lei, nella percezione dell’Africa da parte dell’Occidente?
«Stiamo parlando di qualcosa che è stato “costruito” nel corso dei secoli, una percezione radicata nelle memorie personali e collettive: per questo è difficile modificarla in tempi brevi. Infatti, è cambiata ancora poco. Storici, cartografi, missionari, esploratori, filosofi, scrittori, pittori, funzionari coloniali, viaggiatori, leader politici, giornalisti hanno tutti contribuito, ciascuno in modo diverso, a forgiare l’immagine dell’Africa e della gente africana così come si configura oggi. Certe rappresentazioni hanno avuto più successo di altre: ad esempio quella di un’Africa irrimediabilmente legata alla tradizione, al passato, in cui la gente è tutta carne ed emozioni e con poco cervello. Su questo, si sono innestati, negli ultimi decenni, i meccanismi dei media: a fare notizia sono gli eventi negativi (come i conflitti) o tragicomici (come il re che sceglie moglie tra centinaia di vergini), e non i fatti positivi, o i processi meno visibili di cambiamento. Non che in Africa manchi la materia, intendiamoci, ma è indubbio che l’informazione tenda a privilegiare e ad enfatizzare la dimensione “evenemenziale”, immediata e catastrofica: la carestia e il dittatore fanno notizia e vendono; una elezione pacifica, una scoperta scientifica di un istituto locale (penso, ad esempio, alle ricerche sulla malaria dell’Icipe in Kenya) non fanno notizia, o la fanno di meno. Qualche eccezione si fa per la musica o il cinema.
Su questo meccanismo si innesta anche il ruolo di alcune Ong o di altri attori che, per ragioni di raccolta fondi, o esercitando un giusto ruolo profetico e di denuncia, tendono a parlare di quello che non va, per cambiarlo. Nel fare questo, è chiaro che risulta più agevole trattare eventi in cui è facile attribuire una specifica responsabilità (al governo X o alla multinazionale Y), piuttosto che altri problemi meno evidenti o non facilmente imputabili a specifici attori, ad esempio: la fuga dei cervelli (Corriere delle Migrazioni ne sa qualcosa), la discriminazione delle donne e la loro lotta per l’emancipazione, la gestione delle aree urbane e il rapporto città-campagna, la qualità dei servizi sanitari nella loro quotidianità (al di là delle emergenze), la ricerca scientifica e accademica, e così via. Questa situazione favorisce numerose distorsioni presso il grande pubblico, che non ha modo di farsi un’idea diretta delle società africane, e perpetua un meccanismo di ignoranza e pregiudizio.
Negli ultimi anni, tuttavia, ci sono stati dei cambiamenti. Vari portali e siti web, anche in Italia, offrono una informazione più completa e corretta dell’Africa e dei popoli africani: oltre alle testate specialistiche che si occupano tradizionalmente di Africa, posso citare African Voices, Africa e Mediterraneo, il blog Sancara, il gruppo Facebook su l’Afrique qui gagne e altri ancora. Anche qualche grande testata nazionale generalista ospita periodicamente bei servizi e réportages sull’Africa che cambia. Questo mi fa ben sperare, ma c’è ancora molto da fare, non solo sul versante dell’informazione, ma anche su altri versanti, soprattutto quelli della ricerca e dell’educazione nelle scuole e nelle università. In altri Paesi europei si è fatta molta più strada. Ma è un discorso molto lungo…»

C’è un nesso tra il razzismo e la visione distorta dei paesi cosiddetti in via di sviluppo?
«Il razzismo ha origini profonde, direi etologiche e legate a un senso non gestito della territorialità, ma la componente “ignoranza” è certamente fondamentale. Gli stereotipi e le generalizzazioni sono un elemento fondamentale del razzismo. È chiaro che se noi immaginiamo che gli africani, tutti indistintamente, siano gente di villaggio, analfabeti o che posseggono (se va bene) solo la licenza elementare, non potremo che avere una visione “dall’alto verso il basso” degli immigrati provenienti dall’Africa, e oltretutto offriremo loro (anche ai laureati e diplomati, e provenienti da città grandi il triplo di Milano) lavori dequalificati rispetto alle loro reali competenze. Questo è solo un esempio. Penso anche che l’anticamera del razzismo, il suo terreno di coltura, sia la mentalità paternalistica presente in tanti ambiti della nostra vita quotidiana: da molta produzione televisiva e musicale, alla numerosa (non tutta) pubblicistica della solidarietà, a tanti elementi del discorso politico e sociale, che si riflettono persino nei resoconti di viaggiatori e turisti. Non è facile venirne fuori, e non bastano prediche o singole denunce per ribaltare la situazione: occorre agire molto più in profondità e con continuità».

Il ribaltamento a 180° della visione stereotipata dell’Africa, la tendenza a sottolinerare i suoi aspetti “moderni” in una sostanziale identità con quelli occidentali, non rischiano di risultare ugualmente piatti?

«In effetti, questo ribaltamento a 180° è ingenuo. Bisogna esaminare le cose per come stanno, senza pregiudizi, e cercando di comprendere tutti gli aspetti, non solo alcuni. Per me, quando si parla di conoscenza e di immagine dell’Africa è importante cercare di esaminare sia le discontinuità che le continuità esistenti tra la realtà africane e le altre, compresa la nostra. È evidente che siamo diversi, e che le diversità vadano riconosciute, apprezzate e valorizzate. A volte, però, riconoscere una diversità può portare con sé, come una specie di cavallo di Troia, anche un elemento di distanza, o, anche senza volerlo, di disistima. Ad esempio, ogni volta che attribuiamo agli africani, indistintamente, una personalità contraddistinta tout-court dall’emozionalità, dalla semplicità, dall’accettazione sorridente di quel che viene, ecc. e dunque come distinta da quella tipica della razionalità occidentale, non facciamo che riprodurre un pregiudizio di stampo coloniale. E per questo trovo utile, nel blog, anche con un po’ di spirito polemico, sottolineare qualche elemento di continuità: non solo il fatto che siamo in un mondo, di fatto, interconnesso (nel bene e spesso nel male, anche per colpa nostra) e che tanti problemi sono comuni, ma anche, più nello specifico, il fatto che pure in Africa esiste un ceto medio in espansione, esistono università, imprenditori, cineasti, case di moda, sindacalisti, magistrati, parlamentari, sindaci, donne intellettuali (non solo quelle che pestano ritmicamente il miglio: le uniche che gli italiani conoscono dai servizi e dai documentari televisivi). Sembrano forse dettagli da poco, ma non lo sono: già riconoscere queste cose sarebbe un piccolo passo avanti, anche nella lotta contro il razzismo, e per un confronto migliore con chi, provenendo da lontano, viene a vivere qui da noi».

Stefania Ragusa