Dopo Kabobo

Prevenire è meglio che (non) curare

Ilaria Sesana - 12 Febbraio 2014

48de06260545e_big-300x214Adam Kabobo in carcere, poi fuori dal carcere (che non vuol dire libero, ma in un ospedale psichiatrico), poi di nuovo in carcere. Questo “balletto” paradossale ci riporta a una questione centrale e sempre disattesa: il disagio psicologico e/o psichiatrico di migranti e richiedenti asilo. Ne parliamo con Dela Ranci, psicologa e psicoterapeuta tra le fondatrici di Terrenuove onlus, cooperativa milanese che assiste le fasce più fragili della popolazione. Tra gli altri, un servizio di accoglienza psicologica per rifugiati e richiedenti asilo.

«Bisogna lavorare in ottica preventiva. Per cogliere fin dal primo approccio ai servizi quei sintomi che possono far pensare alla fragilità e alla vulnerabilità dei migranti. Per offrire quel tipo di accoglienza e assistenza necessaria a contenere i traumi che queste persone possono aver vissuto», dice Dela Ranci. Uomini e donne in fuga da guerre e bombardamenti. Perseguitati in patria e costretti ad abbandonare la famiglia per salvarsi la vita. Costretti ad affrontare viaggi spaventosi nel deserto o su fragili imbarcazioni per attraversare il Mediterraneo. Violentati, picchiati, umiliati. Traumi profondi, che segnano in maniera spesso indelebile la vita e la psiche di tante persone, soprattutto di coloro che sono più fragili. La vicenda di Adam Kabobo o la triste fine del 21enne somalo, che si è impiccato nel Cara di Mineo lo scorso dicembre, rappresentano due facce della stessa (tragica) medaglia.

Purtroppo, non tutti i richiedenti asilo e migranti che avrebbero bisogno di assistenza più specifica la trovano: non tutti riescono ad avere accesso a percorsi in cui questo tipo di assistenza viene fornita. «Un centro di accoglienza con cinquanta o più persone e pochi educatori non è certo il luogo più adatto per chi ha fragilità o problemi psicologici», sottolinea Dela Ranci.

La situazione è migliore all’interno di residenze protette, come i progetti Sprar dedicati all’accoglienza dei vulnerabili: «C’è maggiore tutoraggio e le patologie si possono trattare – osserva Dela Ranci –. Trattare per tempo e con i giusti strumenti una sindrome post traumatica da stress, significa evitare che la situazione si incancrenisca e degeneri».

E se da un lato Milano può contare su una buona rete di assistenza, occorre lavorare meglio sui servizi di primissima accoglienza. È proprio qui che serve personale competente «capace di cogliere quei segnali di fragilità psicologica che invece devono essere presi in considerazione fin dall’inizio – spiega Dela Ranci –. Per evitare situazioni di peggioramento». Accoglienza mirata e tempi adatti, sono i migliori alleati.

Anche le istituzioni possono avere un ruolo ambivalente. Da un lato (se fanno bene il loro lavoro) possono favorire il recupero delle competenze. «O, al contrario, essere elemento di ri-traumatizzazione e portare a casi eclatanti di violenza verso altri o verso se stessi», osserva Dela Ranci. Un sistema di accoglienza strutturato a tutti i livelli – dalla Questura alla Prefettura – che riconosca l’altro nella sua precarietà, può essere utile per recuperare fiducia in se stessi: «Sentendosi capiti e presi in considerazione, è più facile mettersi in gioco, in una situazione che già di per sé è difficilissima», conclude Dela Ranci.

Ilaria Sesana