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Birmania, genocidio silenzioso

- 24 Febbraio 2014

Sittwe, la capitale dello Stato di Rakhine del Myanmar, ex Birmania, è divisa in due. Da un lato, la popolazione della maggioranza etnica rakhine gode di piena libertà: può viaggiare dove vuole, sposarsi, lavorare e andare in qualsiasi cerimonia religiosa. Dall’altro lato, quasi 150 mila musulmani rohingya non sono riconosciuti tra le 134 etnie che ufficialmente compongono il Paese, vivono stipati in una dozzina di campi e sono privati dei loro diritti fondamentali: non possono lasciare il Paese, necessitano di un permesso speciale per sposarsi, le nascite sono controllate, e non hanno nessuna fonte di reddito.

Un vero e proprio regime di apartheid quello imposto dal governo birmano dopo l’esplosione di violenza del 28 maggio 2012. Quel giorno, secondo la versione ufficiale che è stata smentita da diversi testimoni, tre uomini rohingya avrebbero violentato e ucciso una giovane buddista, lasciando il suo corpo in strada. Immediatamente sono scoppiate le violenze contro la minoranza musulmana: migliaia di case sono state ridotte in cenere, e oltre 200 persone sono state uccise. Ashin Wirathu, monaco buddista, leader spirituale del movimento anti-islamico in Birmania, ha detto che è deciso a fare una pulizia etnica, e il presidente della Birmania, Thein Sein, ha detto di essere d’accordo.
Aungmingalar, un quartiere centrale di Sittwe, è diventato un ghetto per i rohingya: ci vivono circa 4 mila persone. La situazione è disperata: mancano i farmaci, le donne che partoriscono non hanno assistenza medica e i neonati non hanno vestiti. Le infrastrutture sono come quelle di un campo di concentramento, e i medici, tutti di etnia rivale (rakhine), non sembrano molto interessati a fare il loro lavoro e questo sta provocando un genocidio silenzioso.