Rom-anzi

Pescara, i rom hanno paura

Sergio Bontempelli - 17 Marzo 2014

 

scritta-pauraNazzareno Guarnieri, della Fondazione Romanì, lancia l’allarme: in Abruzzo episodi preoccupanti di discriminazione, anche istituzionale

Nazzareno Guarnieri è uno degli attivisti rom più conosciuti in Italia. Viene dall’Abruzzo, regione dove la presenza rom ha caratteristiche peculiari, diverse da quelle che si registrano altrove: anzi, se vogliamo dirla tutta, è proprio facendo una scappata in Abruzzo che si possono sfatare gran parte dei pregiudizi sui cosiddetti “zingari”.

Già, perché qui i rom non abitano – e non hanno mai abitato – nei “campi nomadi”. Non vivono nelle baracche, non dormono nelle roulotte, non affollano le piazzole degli insediamenti di periferia. Tutte le famiglie vivono in casa, e se vuoi andarle a trovare devi suonare il campanello di qualche palazzo in cemento armato. Tra l’altro su quel campanello, quasi sempre, non si troverà un cognome dal sapore “esotico” – magari di origine slava, o rumena – ma uno italiano, italianissimo. Come Guarnieri, appunto. Perché in Abruzzo – dicono le statistiche più aggiornate – l’80% dei rom ha la cittadinanza, e ce l’ha da generazioni: si tratta di famiglie “autoctone” a tutti gli effetti.

Eppure, le discriminazioni esistono anche qui. Perché il razzismo non dipende dal colore della pelle, non colpisce (solo) le minoranze straniere, e ha poco a che fare con la “diversità”, checché se ne dica. Ma questo è un altro discorso, e sarà meglio non divagare: le cose che ci deve raccontare Nazzareno Guarnieri sono già abbastanza delicate e complesse, e vale la pena di restare sul punto. Lo storico animatore della Fondazione Romanì è preoccupato – molto preoccupato – per quel che sta accadendo nella sua Pescara. E per la verità non è l’unico: qui, in Abruzzo, ad essere in ansia è l’intera minoranza rom. «C’è un clima molto teso nella nostra comunità. Con la Fondazione Romanì, e con l’Associazione Rom Sinti e Politica che opera a Pescara, stiamo visitando quasi quotidianamente le famiglie, facciamo riunioni e assemblee un po’ con tutti. E registriamo un clima di grande angoscia, dettato dai fatti delle ultime settimane».

A cosa si riferisce? Faccia capire anche a noi che non siamo della zona… «Alcune vicende sono note e conosciute anche fuori regione. Lei ricorderà, per esempio, i fatti di Alba Adriatica: nel novembre 2009, il giovane Emanuele Fadani fu ucciso da alcuni rom nel corso di una rissa all’esterno di un pub. I colpevoli dell’omicidio furono arrestati – giustamente – e processati: è bene chiarire subito che da parte nostra non c’è alcun “giustificazionismo”, e se uno ha commesso un reato così orribile è giusto che subisca i rigori della giustizia. Senza se e senza ma. Il problema è che nei giorni successivi gruppi di giovani violenti avevano organizzato una sorta di “spedizione punitiva” – di fatto, un vero e proprio linciaggio – nel quartiere dei rom: avevano preso di mira persone che non avevano nulla a che fare con l’omicidio, e che avevano l’unica colpa – appunto – di essere rom… Furono lanciati sassi contro i vetri delle abitazioni e delle auto in sosta, provocando danni ingenti».

Ma che c’entra questa lontana vicenda con la situazione di oggi? «C’entra, perché proprio in queste ultime settimane si è concluso il processo contro i giovani accusati di quelle aggressioni. E nessuno di loro è stato condannato. Di fatto, un episodio molto grave di intolleranza e di razzismo è rimasto senza colpevoli».

Il Tribunale avrà avuto le sue buone ragioni per assolvere, no? «Non voglio entrare nel merito, anche perché le motivazioni della sentenza non sono ancora note. Ma non nascondo che l’esito del processo ha provocato molta amarezza nella nostra comunità. Molti rom si chiedono come sia possibile che un fatto così grave sia rimasto senza colpevoli: anche perché le forze dell’ordine erano intervenute, avevano assistito alle violenze, avevano identificato i presenti. Perché le prime rilevazioni della polizia, le indagini degli inquirenti e poi il dibattimento in aula, non hanno portato all’individuazione dei responsabili?».

È per questo processo che si registra preoccupazione nella comunità rom? «Non solo per quello. Ci sono altri episodi, sempre legati alla cronaca giudiziaria, che hanno suscitato rabbia e amarezza diffusa. Il primo riguarda un caso di discriminazione. Circa un anno fa, ricevetti una telefonata da una famiglia rom molto conosciuta in città. Il padre mi spiegò che aveva cercato di iscrivere il bambino a un corso di nuoto: il proprietario della piscina, che in un primo momento si era detto disponibile, rifiutò dopo aver incontrato di persona la famiglia. La sensazione era che il bambino fosse stato escluso perché era “zingaro”. Questo è ciò che mi fu detto allora, da una persona che conosco bene.

Suggerii di andare dai carabinieri per fare denuncia. Il padre andò subito in caserma, e i militari presero contatti con il proprietario della piscina: lo dico perché è importante, significa che in qualche modo anche la forza pubblica ebbe modo di rendersi conto di quel che era accaduto.

Sono state fatte due denunce, una penale – per istigazione all’odio razziale – e una civile per discriminazione. Entrambi i procedimenti hanno dato esito negativo: il proprietario della piscina è stato assolto, e addirittura la nostra associazione è stata condannata al pagamento delle spese legali».

Le ripeto l’obiezione: anche in questo caso, il Tribunale avrà avuto le sue ragioni per procedere in questo modo… «Non sono un avvocato né un giudice, e non voglio insegnare il mestiere ai magistrati. Mi limito a dire che nella nostra comunità questa sentenza ha suscitato amarezza e rabbia. I rom subiscono discriminazioni di tutti i tipi, e a tutti i livelli: spesso, basta essere identificato come “zingaro” per vedersi rifiutare l’accesso a un servizio pubblico.

Certo, quando accadono casi del genere, non è facile dimostrare l’intento discriminatorio: il gestore di un servizio non andrà certo a dire che ha rifiutato l’accesso a un rom perché era rom. Porterà le sue giustificazioni, dirà che non c’era più posto, spiegherà che non c’era nessuna volontà di discriminare, e così via… Ma la nostra comunità vorrebbe che su questi fenomeni si facessero indagini e inchieste più accurate. È necessario diffondere una cultura della non-discriminazione, anche tra gli operatori del diritto. Altrimenti, i rom rischiano di percepire la giustizia come una cosa lontana, e magari anche ostile».

Accennava prima ad altri episodi che ha suscitato preoccupazione tra i rom… «Sì, ci sono anzitutto altre vicende di cronaca giudiziaria su cui non mi soffermo in questa sede. E a queste bisogna aggiungere il fatto che in Abruzzo le politiche di inclusione dei rom sono praticamente scomparse: di fatto, le nostre associazioni sono le uniche che fanno qualcosa per la comunità, e tra l’altro lo fanno a titolo volontario, senza finanziamenti pubblici. I rom si sentono abbandonati, consegnati all’emarginazione e alla discriminazione. E percepiscono le istituzioni – tutte le istituzioni – come mondi lontani.

Noi vorremmo invece diffondere tra i rom una cultura della legalità. Ma è necessario che la legge e le istituzioni tutelino le minoranze, le proteggano dal razzismo, dalle discriminazioni, dalle violenze. Altrimenti, è naturale che si diffonda la sfiducia, che si pensi che la legge è sempre dalla parte del più forte…»

Sergio Bontempelli