Scor-Data

28 marzo 1997

Daniele Barbieri - 23 Marzo 2014

Lo scafo arruginito della Kater I Rades

Come erano furenti negli anni ’90 i leghisti (compresa Irene Pivetti, allora presidente della Camera e dunque “terza carica dello Stato”) contro gli albanesi “invasori” e con quale insistenza urlavano che bisognava affondare o cannoneggiare appena si affacciavano sui “nostri” mari.
Com’è fredda invece Wikipedia a raccontare la strage del 28 marzo 1997, pochi anni dopo il ripetersi martellante di quelle urla. Testuale: «La Kater I Rades (in italiano: Battello in rada) era una motovedetta albanese. Il 28 marzo 1997 la nave, carica di circa 120 profughi in fuga dall’Albania in rivolta, fu speronata nel canale d’Otranto dalla corvetta Sibilla della Marina Militare Italiana, che ne contrastava il tentativo di approdo sulla costa italiana. Nel conseguente affondamento perirono 81 persone di cui si riuscì a recuperare il corpo e – si stima – tra 27 e 24 persone mai ritrovate. I superstiti furono 34». I conti non tornano, secondo la matematica, ma lasciamo perdere.
Invece come è salomonico il tribunale italiano a dare le colpe a tutti e dunque a nessuno: «Secondo i giudici – ancora Wikipedia – la colpa era da dividere tra i comandanti delle due imbarcazioni: sia la sentenza di primo grado, giunta nel 2005, che quella di secondo grado, del 2011, hanno stabilito che il comandante della Kater I Rades aveva effettuato delle manovre scorrette, non ascoltando le intimazioni, mentre la corvetta italiana cercava energicamente di impedire il passaggio. La condanna per Namik Xhaferi, alla guida della nave albanese, fu a quattro anni di carcere, poi ridotti in appello a tre anni e dieci mesi; quella per Fabrizio Laudadio, comandante della Sibilla, ammontava a tre anni, poi ridotti a due anni e quattro mesi».
Com’è rassicurante sapere che «il relitto della nave, recuperato, è diventato a Otranto un monumento ad opera dell’artista greco Costas Varotsos».
Ma com’è infame che nella memoria tutto si confonda: i profughi, le persone in fuga da una guerra civile diventano clandestini, forse criminali. Speronamento è brutta parola, mentre manovre scorrette ha una sua eleganza unita a vaghezza. Suona benissimo l’avverbio «energicamente» purché non sia nella stessa riga degli 81 cadaveri (108 se aggiungiamo i dispersi, che sono in realtà morti non ritrovati e forse neppure tanto cercati).
Com’è diverso invece sentire ricordare tutta questa storia da Giuseppe Chimisso dell’Associazione Skanderbeg di Bologna. Ed è a lui che ora lascio la parola, con il post (e il titolo) che mi ha fatto avere, precisando «non credo sarà facile pubblicarlo da qualche parte ma forse tu ci riuscirai». Le «morti sospette» alle quali Chimisso fa riferimento sono quelle di Giuseppe Antonio Maria Baffa e di Francesco Perrotta – due avvocati – il 13 gennaio 2000, in un inspiegabile incidente stradale proprio mentre si recavano a una udienza del processo sulla strage di Otranto, in quanto difensori delle vittime e dei superstiti.

La strage della Katër i Radës e il deserto morale della politica
di Giuseppe Chimisso
Nel 17° anniversario dell’orrendo massacro continuiamo a pensare che rimuovere la memoria della strage dei profughi albanesi del 28 marzo ‘97 dalle nostre coscienze e cancellarne le responsabilità politiche e giudiziarie sia un crimine grave come la stessa strage. Chi continua ipocritamente a tacere se ne rende complice e l’indifferenza, come ci ha insegnato Primo Levi, uccide più dell’odio e completa il lavoro criminale. Un breve preambolo è doveroso: lo scrivente non rientra nei ranghi innocui e premianti del dissenso compatibile con questo status quo politico, perché avverte per il ceto politico (tutto) del nostro Paese, sempre più insopportabile e nemico il fetore, prima morale, poi politico, che questo emana. Certo non sono cose eleganti da dire e tanto meno da scrivere, però essenziali e necessarie prima di continuare, per non far cadere il lettore nel trabocchetto del gioco delle parti politiche avverse che si colpiscono per difendere il proprio interesse particulare. Al tempo della strage il governo nazionale era di centro-Sinistra, rappresentato al massimo livello da tutti i componenti facenti parte di quel caleidoscopio di posizioni che dai cattolici democratici giungeva sino ai vetero ‘comunisti stalinisti’. Detto governo visse e gestì in prima persona la strage di Otranto con olimpica indifferenza e falsa sufficienza. Nessuno fu sfiorato dalla “orrenda” idea di dare le dimissioni, anche se di lì a poco furono tutti dimissionati da ben più “seri” giochini e manovre di Palazzo. Nessuna giustificazione o assoluzione per il silenzio della sinistra ufficiale; al contrario, come ricordava Miriam Mafai, è piuttosto legittimo pensare che proprio l’imbarazzo e il silenzio della sinistra siano state una delle cause del diffondersi anche nei ceti popolari di uno strisciante razzismo.
Uno dei temi più importanti del dibattito etico proposto dalla sinistra nel nostro Paese è quello della “rimozione della memoria storica”, vale a dire la pericolosa abitudine mostrata dagli italiani a dimenticare il passato, anche quello recente, che porterebbe a irresponsabili comportamenti elettorali; siamo invitati a combattere lo spettro di un “eterno presente” che si aggira fra noi e contribuire a far rispettare la verità della memoria che, come ammonisce Montale, «non è peccato finché giova».
Non c’è bisogno di ricordare la triste cronaca dei giorni che precedettero e seguirono l’affondamento della Katër i Radës: carta canta, i giornali del tempo rappresentano una muta ma chiara testimonianza di come si riesce ad obnubilare le coscienze e manipolare l’opinione pubblica facendo leva sugli istinti più animaleschi nascosti nelle pieghe più recondite dell’animo umano; perfino la terza carica dello Stato invitava «a buttare a mare i profughi» e leader “moderati” consigliavano di «sparare agli scafisti con proiettili intelligenti», senza ricordare le parole d’ordine provenienti dalla destra e dalla palude popolata dalla canea leghista. La strage di innocenti profughi albanesi innescò l’altrettanto triste sequela di dichiarazioni menzognere: «i soccorsi furono più che altro una messa in scena» diceva il compianto avvocato Giuseppe A. M. Baffa, seguiti dall’isolamento dei sopravvissuti, da sviamenti d’indagine, da condizionamenti fraudolenti della pubblica opinione, da successive morti sospette (!) e dalle impunità che da sempre ricorrono in ogni Strage di Stato.
La strage del Venerdì Santo rappresenta una delle pagine più vergognose della nostra storia recente e fu immediatamente rimossa dalla memoria collettiva, ma sarebbe invece il caso che gli elettori di sinistra l’assumessero rapidamente come paradigma di ciò che non è assolutamente possibile dimenticare e politicamente perdonare. Se non altro per poter continuare a coltivare, senza infrangere ogni limite del pudore, il culto della propria differenza. L’assenza del variegato mondo della sinistra ufficiale dai luoghi della tragedia della Puglia è il sintomo evidente della loro assenza politica, ma soprattutto della loro assenza umana. I rappresentanti del ceto governativo del tempo dovrebbero limitarsi a dire la verità sull’argomento, tutta. E se non la vogliono dire allora tacciano per sempre; non esprimano indignazione di comodo quando il governo della parte avversa effettua crudeli respingimenti nel Canale di Sicilia di profughi in fuga dalla guerra o delega dittature del nord-Africa a fare il “lavoro sporco” – Per rispetto nostro, della memoria storica e dei morti».

Daniele Barbieri