Infortuni

Grattacieli da morire

Arianna Liuti - 6 Maggio 2014

 

images-1«C’era un uomo nel mio villaggio che venne in America e fece un sacco di soldi e poi tornò indietro e comprò un bel pezzo di terra e visse nell’agio. Siamo venuti per far soldi e tornare indietro e comprare un pezzo di terra e vivere nell’agio anche noi». Così nel romanzo No-no Boy, John Okada, scrittore americano di origine giapponese, spiega al figlio le ragioni della propria emigrazione. Motivazioni affatto diverse da quelle che spingono oggi molte persone a partire per costruirsi un futuro in Europa e spesso anche in Italia. Sono molti gli elementi di continuità rintracciabili nel disagio che i migranti hanno trovato, e trovano tuttora, nell’inserirsi in società spesso ostili. Simili, però, anche gli effetti positivi che derivano dalla corrente migratoria: il generale arricchimento culturale che scaturisce dal confronto, e talvolta dallo scontro, multietnico; l’apporto di nuove risorse umane e, non da ultimo, il contribuito importante alle economie dei Paesi d’arrivo. Il lavoro, insomma, come strumento di affrancamento sociale ed economico. Ma quale lavoro, a quali condizioni e soprattutto sopportando quali rischi?

A partire da quest’ottica, il tema degli infortuni lavorativi assume una rilevanza non marginale. Lo rileva l’Inail, in occasione del convegno tenutosi il 29 aprile scorso a Roma, durante il quale è emerso che, nel 2013, dei 656 mila incidenti occorsi sul luogo di lavoro, circa il 16% ha riguardato lavoratori migranti. Un dato allarmante tenendo conto che la presenza straniera incide per circa il 7,5% sul totale della popolazione.La situazione è resa ancor più grave dalla crisi economica che ha condotto molte attività alla chiusura. È un dato, dunque, solo apparentemente positivo il calo del 10%, rispetto all’anno precedente, degli incidenti, perché è in aumento il tasso di disoccupazione. Il Sistema Infor.Mo ha rilevato, inoltre, che 1/7 degli eventi mortali vede vittime cittadini di altra nazionalità.

I luoghi maggiormente coinvolti sono i siti industriali, quelli agricoli o forestali e il comparto dell’edilizia. Come si è arrivati ad uno scenario del genere? Probabilmente la situazione è riconducibile a carenze sul piano della formazione e dell’informazione, spesso imputabile anche a problemi di comprensione della lingua. In pochi conoscono e riconoscono le sedi, istituzionali e non, per poter vedersi garantiti i propri diritti sul (e al) lavoro. L’indagine presentata, di cui si attende la pubblicazione, mostra ad esempio come fra i luoghi in cui si va a chiedere consiglio e aiuto dopo un infortunio, non di rado appaiano le parrocchie. I numeri si rifanno poi ai casi denunciati, considerazione non da poco se si pensa che è aumentata del 16%, in un solo anno, la mole di lavoro in nero. Non a caso si è parlato di “mercato duale”, con un’immigrazione volta soprattutto a colmare le carenze di manodopera dei diversi settori. È bene tener presente, però, che le nicchie lavorative così formatesi, e che al momento paiono cristallizzate, possono andar bene per la prima, ma non certo per la seconda generazione di migranti.

L’opinione largamente diffusa è quella per cui il lavoro immigrato è concorrenziale, e quindi dannoso, piuttosto che sostitutivo di quello locale. In altri termini, la comprensione del fenomeno sarebbe più semplice se imparassimo che non si tratta di “rubare” il lavoro all’italiano, ma di permettere allo straniero di inserirsi in un ruolo economico altrimenti disertato dal lavoratore nazionale: «La ricerca di migliore occupazione, ha rappresentato fin dagli anni Settanta la ragione principale degli spostamenti. Per molto tempo tali percorsi sono stati seguiti con sistemi legislativi di scarso impatto – ha voluto precisare nel corso del convegno Luca Di Sciullo, del Centro studi e ricerche IDOS – Solo nel 1998, con la legge quadro “Turco-Napolitano”, si iniziò a legare la presenza straniera al rapporto di lavoro. Nel 2002, con gli emendamenti introdotti dalla “Bossi-Fini” il nesso per la presenza regolare divenne imprescindibile, tanto di tradursi nella formula “contratto di soggiorno”. Col sistema poi del “decreto flussi”, sempre risalente al testo del 1998, si è provato a regolare gli ingressi per motivi di lavoro stabilendo annualmente quote divise per province e per paesi di provenienza. Un sistema che si è rivelato presto ferruginoso per innumerevoli ragioni (tanto che il 70% delle persone entrate nel corso degli anni in Italia lo ha fatto in maniera irregolare, magari non rientrando dopo aver avuto un visto turistico). Il decreto flussi è a discrezione del governo, ci sono stati anni in cui lo si è utilizzato per sanare presenze irregolari e anni in cui semplicemente non è stato emanato. Per l’anno in corso riguarda solo poche migliaia di persone».

Di Sciullo è partito da questo iter legislativo per evidenziare come negli anni si sia resa possibile l’emersione, ai fini statistici, di molti lavoratori non-comunitari, non conteggiati nel mercato ufficiale. «Spesso inoltre, profittando del fatto che la ricerca di un’attività retribuita è un requisito imprescindibile per quanti vogliano risiedere in Italia – ha ripreso il ricercatore – il datore di lavoro si è arrogato il diritto di trascurare alcune basilari norme di sicurezza nella stipula del contratto. Da cui anche le disparità nel numero degli infortuni, sia registrati, in caso di contratto regolare, sia camuffati da incidenti di altro tipo, nei casi molto frequenti di lavoro nero».

L’immagine dell’esercito che invade, della fortezza da difendere, del migrante come clandestino, irregolare e senza documenti, non consente di uscire da una visione emergenziale del fenomeno. Sono storie di «erranza e di speranza», come quelle di Ellis Island di Georges Perec, dove uomini e donne, tra il doloroso confronto con una realtà meno propizia di quanto potessero immaginare, riscoprono anche la voglia di «costruire grattacieli più alti di quelli che avevano scoperto all’arrivo», sperando però di non morire per questo.

Arianna Liuti