Cinema e Africa

Il giro del mondo in 51 film

Stefania Ragusa - 11 Maggio 2014

1189214_Two Men in Town 1Lo riconoscete? È Forest Whitaker, strapremiato ultimo re di Scozia (Oscar, Golden Globe e Bafta) e recente maggiordomo alla Casa Bianca. Whitaker è anche il protagonista di Two men in Town del regista algerino Rachid Bouchareb, film all star (nel cast anche Brenda Blethyn e Harvey Keitel) con cui ha preso il via, a Milano, la 24esima edizione del Festival del Cinema d’Africa, Asia e America Latina. È stata una delle ventotto prime italiane in programma.
«Ce ne sono state poi sei europee e due mondiali: Ouine Algeria? di Lemnaouer Ahmine e il corto italosenegalese Il miracolo del pane. Cinquantuno titoli in tutto, selezionati su una base di 700», dice Annamaria Gallone, ideatrice e, con Alessandra Speciale, direttore artistico della manifestazione. «Ci hanno dimezzato il budget, ma ce l’abbiamo fatta ugualmente, grazie soprattutto allo straordinario impegno dei volontari».
Come e quando è cominciato tutto?
«24 anni fa, grazie all’intuizione di don Francesco Pedretti del Coe. Io ero appena rientrata in Italia dopo 18 anni d’Africa. Pedretti mi sentì parlare a un evento, e mi propose di provare a fare qualcosa sul cinema africano. Una rassegna piccola, in una sala parrocchiale (oggi il Festival occupa sei sale, ndr). La gente era piuttosto incredula. Ma esiste il cinema africano? Era la domanda che mi facevano più spesso. Eppure il Fespaco, il Festival Panafricain du Cinéma de Ouagadougou, in Burkina Faso, esisteva già dal 1969».
Oggi non glielo chiedono più? «Molto meno, per fortuna. Ma la visione eurocentrica del mondo e i pregiudizi sull’Africa ovviamente ci sono ancora… C’è molta attenzione per l’evento e, in particolare, per le sue ricadute sociali: uno dei meriti di questo Festival è, infatti, quello di abbattere barriere. Ciò ovviamente fa piacere. Però continua ad esserci poca attenzione al film visto nel suo valore artistico. Noi invece siamo molto rigorosi da questo punto di vista. Non basta che un film sia africano o che abbia un contenuto sociale: deve essere artisticamente valido».
Questa impostazione vi ha dato ragione?
«Direi proprio di sì. Abbiamo puntato su registi oggi internazionalmente riconosciuti. Abbiamo avuto il prilvilegio e la gioia di seguirli dall’inizio. Rachid Bouchareb è uno di questi. Ma ci sono anche Abderrahmane Sissako, Idrissa Ouédraogo, Jean-Marie Teno… per citarne solo alcuni».
Come è cambiato il pubblico negli anni?
«All’inizo era formato solo da cinefili e “africologi”. Oggi ne abbiamo uno affezionato e straordinariamente vario. Ci sono anche tanti immigrati che vengono per vedere il loro Paese. Quando, qualche anno fa, abbiamo deciso di aprirci anche all’America Latina e all’Asia c’è stato un ulteriore balzo in avanti».
Come sta oggi il cinema africano?
«L’avvento del digitale ha rivoluzionato il settore. Le produzioni sono aumentate e il web ha permesso di superare, almeno in parte, i problemi legati alla distribuzione. Ci sono in giro molti lavori mediocri ma anche tanti piccoli tesori… Per quanto riguarda i contenuti, c’è una forte tendenza a parlare dell’ambiente urbano (mentre prima l’attenzione dei registi sembrava più concentrata sul villaggio) e a riscoprire la storia».
E Nollywood? «Una cosa che sarebbe bene chiarire è che il cinema africano non coincide con Nollywood. L’industria cinematografica nigeriana è ormai seconda solo a Bollywood e ha un vertiginoso giro d’affari, ma dal punto di vista della qualità le realtà più interessanti oggi sono altrove: in Sudafrica, Ghana, Marocco. In Kenya c’è un centro di formazione molto qualificato, che sta realizzando opere molto originali».
E il Fespaco?
«Rimane un appuntamento importante, ma non è più quello di una volta: è diventato molto più turistico e meno selettivo. Il cinema dell’Africa francofona è stato sostenuto a lungo dalla politica post-coloniale francese, ma adesso il sostegno è venuto meno e le risosrse si sono alquanto ridotte».

Stefania Ragusa

 

Questa intervista è stata pubblicata anche su Glamour.it