Lasciamoli Uscire

Majid, una morte silenziosa

Tenda per la Pace e i Diritti - 11 Maggio 2014

221373_204872282886170_112397672133632_594724_338614_oSe ne facciano una ragione i politicanti di verde vestiti, che continuano a propagandarli come hotel a 5 stelle.
Se ne renda conto quella massa acritica che al muro di Gradisca d’Isonzo e agli altri muri d’Italia si è rapidamente abituata.
Di Cie si muore. E il 30 aprile 2014 un ragazzo è morto. Non si è mossa foglia attorno a lui per mesi.
Una parvenza di attenzione suscitò la notizia della sua caduta dal tetto del “mostro di Gradisca”, ad agosto. Era l’8 del mese, una notte d’estate in cui una pioggia di lacrimogeni cadde sui migranti “colpevoli” di voler festeggiare la fine del Ramadan all’aperto.
Furono notti in cui i detenuti salirono sul tetto del Cie per vedere il cielo, sfuggire all’aria impestata dai CS (la sostanza illegale utilizzata per i gas) e gridare ad una cittadina indifferente che non ne potevano più di quell’isolamento. Per un attimo sembrò che le vite dei reclusi senza nome del centro potessero avere un valore mediatico: perché quella notte Majid è caduto dal tetto ed ha battuto la testa.
Per un attimo solo i riflettori si sono accesi sul Cie di Gradisca mostrandolo per quello che è, un luogo di negazione, non solo di diritti ma della vita stessa. Poi però il sipario è velocemente calato.
Calato su quei successivi giorni di caldo e ansia, in cui i compagni di sventura di Majid hanno cercato in ogni modo di rintracciare la sua famiglia in Marocco, perché sembrava che le autorità avessero altro a cui pensare, o forse non era così importante dire ad una madre che suo figlio giaceva in coma in un paese straniero.
Calato sull’ospedale di Cattinara, a Trieste, dove i finalmente rintracciati cugini di Majid, residenti in Italia, hanno cercato di fare visita al loro congiunto e si sono trovati di fronte un muro di burocrazia e negligenza. Perché, disse loro una solerte dottoressa, “dall’ispettore del Cie” arrivava l’ordine di non fare entrare nessuno in quella stanza. Perché i cugini andavano identificati, non fosse mai che due finti cugini cercassero di vedere un ragazzo in coma per chissà quali loschi fini.
Nessuno si curò di renderlo noto, come se fosse normale che la longa manus del Cie arrivasse addirittura fin dentro ad un ospedale, come se Majid fosse un sorvegliato speciale, come se ci fosse un interesse superiore da tutelare nel tenerlo isolato.
Nessuno si curò neanche di facilitare la venuta del fratello di Majid dal Marocco. Perché si sa, quella frontiera che l’Europa difende a costo di migliaia di vite è invalicabile, se non si possiede un visto. E quel visto, ai familiari di Majid in Marocco, nessuno ha pensato di concederlo.
I mesi sono passati, e il silenzio è stato il fedele compagno della lotta di Majid in un letto d’ospedale. Luci spente, perché gli ultimi non saranno mai i primi, non in questa vita.
Nel frattempo, a novembre, dopo manifestazioni, interpellanze, visite di parlamentari, ma soprattutto grazie alle rivolte pagate a caro prezzo, il Cie sospendeva la propria attività. Nella caserma Ugo Polonio, (la struttura in cui è stato realizzato nel 2006) restava funzionante solo il Cara e si parlava con insistenza della chiusura del Cie. In tal senso sembravano improntate le intenzioni delle autorità locali e regionali, in parte dello stesso governo nazionale allora in carica. Ad oggi nulla trapela dalle intenzioni del ministero dell’Interno. La gestione del centro è complessa per le stesse forze dell’ordine, sul capo dell’ente gestore e di quelli che erano al vertice della prefettura preme una indagine per l’utilizzo opaco dei fondi destinati al funzionamento. 13 persone sono indagate in tal senso. Intanto Majid restava aggrappato alle macchine nel suo letto di ospedale, le speranze di sopravvivenza erano pressoché nulle, ma quando si provò a riparlarne sui giornali locali, fra i commenti ci fu anche chi ebbe il coraggio di scrivere che bisognava lasciarlo morire, che quelle macchine dovevano servire per gli italiani, che farlo sopravvivere era un costo inutile per il sistema sanitario. Uno dei volti ripugnanti prodotto da anni di campagne xenofobe.
Sei giorni prima della sua morte, abbiamo chiesto al nuovo Prefetto di Gorizia se un’indagine fosse mai stata aperta su quanto accadde la sera della caduta dal tetto. La risposta, laconica, è stata: “Non mi risulta”. Lo stesso Prefetto non ci ha saputo spiegare come mai la famiglia di Majid sia stata avvisata della morte con una settimana di ritardo e come mai sia stata disposta un’autopsia senza interpellare nessuno dei famigliari.
Abbiamo visto Majid qualche giorno prima che morisse, i suoi occhi guardavano un punto intangibile di uno spazio a noi sconosciuto. Quel ragazzo descritto dai cugini come una forza della natura stava ancora lottando, e sicuramente non ha smesso di farlo fino all’ultimo.
Noi sommessamente abbiamo lottato per lui in questi mesi, ma non è servito a tenerlo in vita.
Continueremo a farlo con ogni mezzo, impedendo la riapertura del centro, mobilitandoci per avere verità e giustizia per Majid anche per vie legali. Il 12 maggio è stato presentato un esposto alla procura della Repubblica di Gorizia per chiedere conto dei maltrattamenti subiti dai cittadini lì detenuti. Il medesimo testo, firmato da attivisti, giuristi, rappresentanti politici e della società civile, assieme alla campagna LasciateCIEntrare, è stato successivamente presentato a Roma.

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