Bologna

Nabu: né Cie né sfruttamento

- 21 Maggio 2014

Era difficile pensare che potesse riuscire così bene in una domenica pomeriggio così presa dalle ultime battute elettorali. E invece in Piazza XX Settembre, nei pressi dell’autostazione, a Bologna, si sono radunati in tanti e tante, per una manifestazione annunciata da tempo contro la riapertura del Cie di Via Mattei. Almeno un migliaio, a detta degli organizzatori, in gran parte lavoratori e lavoratrici migranti, aderenti a collettivi, associazioni autorganizzate, di comunità o di mutuo sostegno. E poi gli attivisti antirazzisti dei centri sociali e di alcuni sindacati di base impegnati da tanto non solo contro il Cie, ma contro l’intero meccanismo di pratiche che governano le politiche sull’immigrazione. Lo striscione di apertura del lungo corteo risultava sanamente irriverente “Sopra il migrante lo Stato campa, sotto lo Stato il migrante crepa”. Alla fine, fra le tante voci che si sono alternate dal palco, è risuonata forte e significativa quella di Nabu, una donna senegalese di circa 30 anni che ha esposto in pubblico la propria storia. Nabu ha passato 2 mesi in un Cie attualmente chiuso, quello di Modena, e il racconto di quelle giornate colpisce la folla dei presenti. Ma con la stessa durezza racconta della propria esperienza di lavoro, in una cooperativa, dove le dicevano che tutti erano uguali ma in cui si è ritrovata sfruttata e priva di diritti. Un racconto in presa diretta che ha permesso di far comprendere come dal legame fra permesso di soggiorno e contratto di lavoro fino ai Cie ci sia un unico percorso, un meccanismo che per Nabu non lascia scampo. Gli organizzatori della manifestazione, inserita nella settimana europea che è attraversata da una marcia che da Strasburgo porta a Bruxelles, non sono soltanto contrari al Cie. «Bene che le istituzioni locali non vogliano il Cie – ci dice uno dei partecipanti – ma non possiamo accettare che, con il pretesto di salvaguardare i posti di lavoro di coloro che operano nel centro, questo venga trasformato in un Cara. Questo sia perché anche i Cara sono centri che non risolvono minimamente i problemi dell’accoglienza, sia perché non è accettabile che le stesse persone che tenevano segregate le persone oggi ricevano soldi per “ospitarli”».