Intervista

La Cgil e i migranti dimenticati

Stefano Galieni - 17 Giugno 2014

Cgil-Africa-300x297«La nostra organizzazione ha mancato un obiettivo importante e questo mi preoccupa molto». Pietro Soldini, responsabile nazionale dell’Ufficio Immigrazione della Cgil, ad un mese dalla conclusione del congresso del più grande sindacato italiano, non nasconde delusione, amarezza e anche una certa indignazione.

Da cosa deriva questa delusione?
«Più che deluso sono seriamente preoccupato. Nella composizione dell’assemblea congressuale, l’organismo fondamentale per decidere del nostro futuro, non c’è stata una adeguata presenza di lavoratori e lavoratrici migranti. C’è stato, fra i nostri dirigenti, chi ha detto che le ragioni vanno ricercate nella crisi economica. Ma questo è ancora più grave. La crisi riguarda tutti, ancora di più i migranti. È aumentata la loro ricattabilità e il loro sfruttamento. Sono sempre più ingabbiati dal permesso di soggiorno, hanno visto un arretramento dei percorsi di integrazione, una riduzione dei diritti e un aumento delle forme di discriminazione e di razzismo. Avevamo un obiettivo e l’abbiamo mancato e questa resterà una macchia pesante su tutto il nostro sindacato».

Questo nonostante una forte presenza migrante nel sindacato
«Ora abbiamo a disposizione un programma che ci permette di avere un quadro più dettagliato degli iscritti. Ad oggi ne abbiamo memorizzati circa 4 milioni, ne restano fuori circa 1 milione e 700 mila. Di fatto conosciamo meglio due terzi degli iscritti. Di questi, circa il 15 per cento è di origine immigrata. Ed è un dato in crescita. Se ci limitiamo a quelli che hanno meno di 35 anni, la percentuale sale al 25 per cento. Quindi non solo tanti iscritti, ma giovani che garantiscono quel rinnovamento generazionale di cui abbiamo bisogno. A fronte di questi dati c’è stato un dimezzamento, rispetto al precedente congresso, di presenza di lavoratori e lavoratrici immigrati nel “direttivo nazionale” che è il nostro organismo centrale. Si è passati da 8 a 4 delegati, da oltre un 4 per cento, che era già assolutamente insufficiente, a meno del 2. Nella platea congressuale poi c’era solo l’1,5 per cento di lavoratori immigrati. Io so bene che l’obiettivo deciso dalla Cgil nei congressi precedenti, cioè garantire agli immigrati una rappresentanza proporzionale agli iscritti, è molto ambizioso ed ha bisogno di gradualità, tempi lunghi e non traumatici. Ma ho assistito – da fuori perché neanche io ero delegato, discriminazione nella discriminazione – ad un processo regressivo. Quando aumentano gli iscritti e diminuisce una rappresentanza si determina un vulnus democratico. Oltre a certificare il fatto che iscriviamo immigrati ma non sappiamo rappresentarli, questo conferma una assenza di valore sul terreno politico e rivendicativo».

Manca la capacità di aprire rivendicazioni?
«Avverto una condizione di stallo. Rivendichiamo stancamente alcune cose sacrosante, come il superamento della Bossi-Fini, la riforma della cittadinanza, il diritto di voto e tutele contro supersfruttamento e discriminazioni, senza fare tutte le azioni conseguenti. C’è uno scarto enorme fra i documenti di carattere generale e quanto elaborato nel coordinamento immigrazione e nel nostro ufficio. Tanti elementi propositivi sono emersi all’assemblea nazionale dei lavoratori e le lavoratrici migranti del 16 dicembre scorso, ma non vengono assunti come vertenze generali. Il tema immigrazione è trattato in termini marginali. Si ragiona per priorità ma io dubito che, anche guardando con l’ottica delle emergenze da affrontare, l’immigrazione non abbia diritto ad essere messa più in alto in graduatoria. Lo ha dimostrato anche la campagna elettorale per le recenti elezioni europee. Il tema è stato agitato da forze di destra razziste e xenofobe, è emerso un vero e proprio “razzismo militante” che pervade anche i social network. Manca invece una militanza antirazzista, non c’è terreno di scontro politico e culturale su questo tema e anche il centro sinistra continua ad essere reticente. Resta il ragionamento per cui parlare di immigrazione provoca la perdita di consensi».

Ma questo come si ripercuote nel sindacato?
«Parto da un esempio che può apparire parziale ma è rivelatore. Nei giorni del congresso nazionale c’era stato il rapimento delle oltre 200 ragazze in Nigeria, colpevoli di voler studiare. Da noi si era così presi dal dualismo dello scontro interno (Camusso vs Landini) che non si è trovato neanche il tempo per approvare un ordine del giorno rispetto a un fatto così grave. Ma anche ripercorrendo i mesi che hanno portato al congresso nazionale, nelle Camere del Lavoro, nei territori, nelle categorie, si è avvertita una vera e propria crisi di identità e di smarrimento. Non solo ci si è fermati a difendere lo status quo, ma ci si è rivelati inadeguati nell’aprirsi al nuovo. Oggi la Cgil fatica a rappresentare gli immigrati, ma più in generale i giovani, i nuovi lavori, i contratti atipici, il mondo della precarietà. Si è mantenuta la rappresentanza di genere (il 41 per cento dei delegati erano donne) ma ci si è assopiti rispetto all’immigrazione. Non basta poi neanche avere una dirigente donna se questa esige di essere chiamata “Segretario”, al maschile. E questo, scusate se esulo dal tema, dovrebbe far interrogare anche le compagne, non basta semplicemente fare spazio alle donne. Abbiamo un ministro della difesa donna che rispetto agli F35 ha le stesse impostazioni vetero maschiliste. Alcuni elementi politici non sono stati intaccati dalla presenza numerica. E, tornando a noi, non solo ci sono meno immigrati ma, in base alle arcaiche liturgie con cui costruiamo i gruppi dirigenti, liturgie che durano mesi, non sappiamo neanche chi ha scelto i lavoratori immigrati e viene il dubbio che siano stati selezionati quelli ritenuti più affidabili dalla burocrazia interna».

Un processo regressivo che si registra in tutte le categorie?
«Ce ne sono alcune che, nel corso del tempo, hanno acquisito dignità e hanno tenuto di più, come la Fillea (edili) e la Flai (lavoratori dell’agricoltura). Qualche passo in avanti lo ha fatto anche la Filcams (lavoratori del commercio). La Flai, più delle altre, è riuscita a dare risposte sindacali. C’erano due modi di reagire: o tenere bassa la spinta portata dai lavoratori migranti o utilizzarla come leva. La Flai ha scelto questa seconda strada, ha messo in campo questioni che compongono le ragioni per fare il sindacato, per aprire vertenze, per essere “sindacato di strada” e nelle campagne. Hanno portato temi di cultura politica importanti. Oggi, anche grazie alle vertenze aperte, c’è una piattaforma unitaria che rivendica un nuovo sistema di collocamento pubblico nell’agricoltura, solo pensarlo due anni fa sarebbe sembrata una bestemmia. Questo perché la contraddizione nel mercato del lavoro è esplosa. In altre realtà siamo rimasti indietro, nella Filt ad esempio (trasporti). In questa categoria è concentrato il maggior numero di lavoratori immigrati ma l’organizzazione è rimasta arretrata. Si ragiona ancora come si trattasse solo di ferrovieri, mentre oggi gran parte dei lavori sono esternalizzati e in subappalto, predomina la privatizzazione. Basti pensare alle pulizie, alla logistica, all’autotrasporto, al facchinaggio e sono settori che non riusciamo a rappresentare. Sono entrate in ballo anche cooperative e forme di contrattualizzazione che acuiscono le discriminazioni nei trattamenti. Col risultato che questi lavoratori cercano altrove una tutela sindacale. Anche la Fiom si è trovata nello scontro fra maggioranze e minoranze politiche nella Cgil ed ha anch’essa sacrificato la rappresentanza dei lavoratori immigrati».

Una critica che riguarda l’intero territorio nazionale?
«Questo processo regressivo, scendendo dalle categorie, arriva alle persone in carne ed ossa e pesa di più nelle situazioni fragili e deboli. Nel meridione i lavoratori partivano già svantaggiati in quanto meno tutelati e impiegati nei settori più informali e polverizzati. C’è maggiore precarietà anche delle stesse strutture sindacali. Le compagne e i compagni che collaborano con gli uffici immigrazione periferici spesso si sono visti tagliati da una nostra inevitabile spending rewiew interna».

Ed ora che intende fare partendo dal quadro che ci ha delineato?
«Il mio è un giudizio pesante che riflette, come ho già avuto modo di dire, uno stato d’animo personale. Lavoro in questo campo, credo con passione e determinazione, da 12 anni. Ne ho conosciuto dall’interno i percorsi e i processi, per questo ritengo la situazione molto difficile. Se ne può uscire se i lavoratori e le lavoratrici migranti acquistano maggiore consapevolezza. Devono abbandonare ogni condizione di soggezione e non piegarsi a chi dice loro di aspettare il turno. Possiamo vivere nell’idea che si possa parlare di immigrazione solo se ci sono centinaia di morti? Molto si può ancora giocare ma occorre una diversa e più forte capacità organizzativa, occorre coraggio e militanza. Insieme a noi sono nate esperienze di lotta di alto livello come a Nardò, a Rosarno nell’agricoltura o nei cantieri edili. Ci sono realtà del Nord, come Milano e Brescia, che hanno fatto esperienze significative. Ci sono due sentenze del Tar Lazio “conquistate” dalla Cgil e dall’Inca, sulla cittadinanza e sulla tassa del permesso di soggiorno che mettono in mora il Governo, ma hanno bisogno di una spinta dal basso. Bisogna partire da loro e, con maggiore autonomia, riportare le questioni nel dibattito generale, senza avere più timori. Basta con le prudenze».

Stefano Galieni