In primo piano

Italiani brava gente, ma perché?

Francesca Matereozzi - 17 Giugno 2014

uomo-bianco-donna-nera-durante-il-colonialism-L-MxysHG-1Quanto il nostro colonialismo ha influenzato il rapporto dell’Italia con i migranti e con il continente africano? Ne parliamo con Uoldelul Chelati Dirar, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa presso l’Università degli studi di Macerata.

Si ha percezione in Italia del colonialismo?
«Non c’è percezione. Ne è un esempio anche l’episodio del monumento a Graziani ad Affile che non ha creato particolare scandalo se non tra gli accademici o nella parte più militante della società. Del resto, nei programmi scolastici c’è poco; se va bene, a scuola, si parla della  battaglia di Adua. Le città italiane sono piene di vie e piazze Adua, Tripoli o Mogadiscio, ma pochi conoscono il perché di queste scelte toponomastiche. Si pensa piuttosto a qualcosa di esotico, come via Bangcok. Poche sono le persone che sanno collocare storicamente questi nomi e che sono consapevoli di come mai in quasi tutte le città italiane c’è un quartiere “africano”. C’è un paradosso: negli ultimi 25 anni c’è stato una grande produzione di studi sul colonialismo italiano, però vi è una grossa difficoltà a far filtrare questa produzione oltre i confini accademici. In tutto ciò vi è, in parte, una nostra responsabilità come accademici, che non riusciamo a dare vita a un’attività di divulgazione popolare. Allo stesso tempo, un grosso limite è l’assenza di manualistica per le scuole. Il passaggio fondamentale è infatti quello pre-universitario. È lì che si forma gran parte della coscienza civica degli italiani».

Quanto è forte la convinzione che siamo andati a fare del “bene” in Africa?
«È già qualcosa se qualcuno ha questa visione, almeno sa che l’Italia c’è stata in Africa. La retorica sulla specificità italiana è diffusa non solo nel colonialismo, ma anche nell’emigrazione degli italiani all’estero. Effettivamente  un elemento di specificità c’è stato. Il colono italiano è l’unico (in parte vale anche per i portoghesi) che arrivava per lavorare, per scavare e costruire. Nel colonialismo degli altri paesi il ruolo del lavoro “bianco” è stato fondamentalmente dirigistico, di colui che stava in alto a far lavorare gli altri. Il colonialismo italiano è stato in gran parte un colonialismo di emigrazione una valvola di sfogo per la pressione demografica, la disoccupazione contadina e, più in generale, la povertà e pertanto il lavoro (italiano) vi ha svolto un ruolo particolare».

Cioè?
«Dopo l’unificazione c’è stata una costante emorragia di mano d’opera verso l’estero che andava prevalentemente a beneficio di altre economie: Argentina, Stati Uniti, Australia ecc. La politica coloniale italiana mirava ad attivare un doppio circuito: uno, economico, in cui la ricchezza prodotta ricadeva interamente nella sfera economica italiana e non solo, quindi, con le rimesse; l’altro, sociale, che cercava di disinnescare le tensioni e il conflitto che si stavano producendo anche a causa del processo di unificazione d’Italia».

s200_uoldelul.chelati_dirarQuindi non c’è consapevolezza di quello che si è fatto di male?
«Secondo me, avviare il discorso sottolineando la violenza che c’è stata è un punto di partenza sbagliato. Il colonialismo non dovrebbe essere analizzato in termini di una contraposizione manichea tra bene o male. Il colonialismo, qualsiasi colonialismo, è per definizione un fenomeno violento di usurpazione di risorse e diritti. Il grande passo in avanti sarebbe, rispetto alle nuove generazioni, spiegare come questa sia una storia comune perché in fondo il colonialismo, anche se con brutalità e con tutta la violenza di cui è portatore, ha intrecciato irreversibilmente le storie di vari paesi e persone. Per cui la storia dell’Italia è parte della storia dell’Eritrea, della Libia, dell’Etiopia e Somalia, e viceversa».

Però non ce n’è memoria. Perché?
«È stato un fenomeno abbastanza bizzarro. Nel dopoguerra in Italia si è operata una chiusura secca con il passato coloniale. Finita la Seconda guerra mondiale con il rigetto del fascismo, diventato il male supremo, si è rimossa anche la memoria coloniale in quanto associata al fascismo. In realtà l’esperienza coloniale italiana inizia verso la fine degli anni ‘60 dell’800 e quindi il fascismo ha coperto meno di un terzo di questa esperienza. Il risultato di tale processo di rimozione è stato un crescente disinteresse per queste vicende. Solo gli anziani che hanno vissuto quel periodo, spesso come momento centrale per la loro vita, hanno continuato a portarne memoria, pur nell’amnesia storica che li ha circondati. Pensiamo alla frustrazione di queste povere persone. Loro hanno continuato a tenere in casa i loro piccoli mausolei e i figli non ne sapevano niente o comunque non ne capivano pienamente il significato. È il contrario di quanto successo nelle colonie, dove invece è rimasta molto presente e difffusa la memoria del periodo coloniale».

La mancanza di conoscenza di ciò che è capitato durante il colonialismo quando incide sugli stereotipi e sul razzismo?
«Facciamo un esempio, durante gli anni ‘20, ma anche prima, se si guarda la pubblicità (tralasciando il razzismo e gli stereotipi, che c’erano) l’Africa era molto ricorrente. Come una presenza scontata e costante dell’immaginario italiano. Stereotipata, ma meno distante di quanto non lo sia adesso che è percepita come sideralmente distante, non c’è la percezione della complessità del continente e neanche dei rapporti economici che con esso l’Italia pur intrattiene».

Quindi, in realtà, non aver affrontato questione coloniale ha portato a perdere contatti con questi mondi?
«Sul piano economico-commerciale c’è un certo volume d’affari con questi Paesi, a cui però corrisponde una scarsa consapevolezza dei legami storici se non in maniera retorica. Verso la fine degli anni ‘90, per esempio, l’ambasciata italiana ad Asmara decide di erigere un ceppo alla memoria di due esploratori italiani dell’800 che, testuale, portava la scritta “trucidati mentre portavano civiltà e commercio” riciclando così la più becera retorica coloniale. Un secondo episodio si è verificato pochi anni dopo in occasione di una visita ad Asmara. In questa occasione, nel corso di un discorso pronunciato alla Casa degli Italiani, il sottosegretario ha incentrato tutto il suo discorso sul rapporto storico tra Italia ed Eritrea dicendo in sostanza che l’Italia ha portato tutto: le strade ecc. E tutto questo di fronte alla leadership del Fronte Popolare. C’è questa bizzarria tutta italiana per cui i diplomatici e spesso anche la classe dirigente dicono delle cose, che se non altro, per buon gusto diplomatico, non andrebbero dette».

 Sembra quasi che non si prenda in considerazione l’interlocutore.
«Non sembra, è così. Su queste cose a volte riesco quasi a trovare simpatica la scelta politica eritrea di “prendere a schiaffoni” gli interlocutori quando non vi è la giusta considerazione. Ad esempio, un ambasciatore italiano, che secondo le autorità eritree ha avuto un comportamento ritenuto non consono, è stato espulso. Non entro nel merito della questione politica, che è ovviamente molto più complessa, ma a volte credo, paradossalmente, che questo sia l’unico modo per far capire alle autorità coloniali che non ci si trova più in un contesto coloniale. Con ciò, ovviamente, non intendo assolvere il governo eritreo dai suoi innumerevoli errori e soprattutto dalle sue inaccettabili politiche di sistematica violazione dei diritti dei suoi cittadini».

Colonie_italianeMa qual è la rappresentazione dell’Italia all’estero, in particolare in Corno d’Africa?
«In Eritrea, per esempio, l’Italia è quasi una specie di presenza quotidiana e scontata. Basta pensare a certe usanze ormai entrate nel modo di vivere come il caffè, il cappuccino, certi ritmi quotidiani, leggere il giornale al bar. Questo almeno nelle aree urbane. Per questo, spesso, i migranti eritrei, quando arrivano in Italia percepiscono fortemente le similitudini nell’organizzazione degli spazi urbani, nei ritmi di vita ecc. In Eritrea, noi che siamo emigrati in Italia, veniamo chiamati “gli italiani” e di noi dicono che, come gli italiani, siamo dei casinisti, esuberanti, poco attenti ai formalismi dominanti nella società eritrea. Gli eritrei che arrivano a Lampedusa, anche se non intendono restare in Italia, sapendo che non c’è una tutela effettiva dei diritti dei migranti, arrivano ugualmente con qualche aspettativa, magari inconscia, per via di questo legame creato dal passato coloniale. Mentre, invece, per gli italiani rimangono “extracomunitari” come tutti gli altri».

Quanto invece è vera la diceria che gli eritrei sono maltrattati in Libia per motivi legati alla colonizzazione, cioè che erano ascari e quindi soldati per l’Italia?
«Su questo non so essere preciso. L’ho sentita dire anch’io. Un dato di partenza fondamentale è che la società libica è profondamente razzista e questo spiega in gran parte i maltrattamenti di cui gli eritrei sono vittime, così come gli altri migranti presenti in Libia. Non escludo che per alcuni casi il rancore dovuto ai trascorsi coloniali possa contribuire a spiegare i maltrattamenti. È comunque vero che il grosso dei combattimenti per la conquista coloniale della Libia lo abbiano sostenuto gli ascari eritrei. Il ruolo militare delle truppe italiane è stato più ridotto, questo è un dato storico innegabile. Gheddafi ha enfatizzato molto l’esperienza coloniale, in particolare le sue componenti più brutali quali stermini di massa e campi di concentramento, come uno spartiacque della storia libica. Comunque credo che l’elemento fondamentale dei maltrattamenti dei libici verso gli eritrei sia da ricondurre al razzismo».

L’Africa ha superato il periodo coloniale e sta guardando a nuovi orizzonti come Cina e India?
«Sta andando oltre, forse, a livello economico perché l’Europa sta diventando sempre più marginale. Non credo che si possa dire altrettanto quando si parla in termini di consapevolezza storica. Vi è ancora scarsa consapevolezza, da parte delle classi dirigenti del Corno d’Africa e dell’Africa in generale, di quanto il colonialismo abbia plasmato le società africane, sia in termini di stratificazione sociale, che di modelli politici, di organizzazione economica ecc. Per esempio in Mozambico, dopo la guerra civile nei primi anni di governo stabile, ci sono state delle grosse rivolte dei coltivatori che dicevano di non vedere le differenza tra quel governo e il colonialismo. Entrambi li obbligavano a modernizzarsi secondo modelli a loro estranei, entrambi li facevano abbandonare i loro modelli agricoli. Le classi dirigenti africane sembrano convinte che la realtà locale sia inadeguata e che vada modernizzata. Spesso però questa considerazione presuppone che le risorse e i modelli per affrontare i problemi non siano reperibili localmente. Si tende così a non riflettere con attenzione sui concetti di sviluppo e modernizzazione, riprendendo inconsapevolmente concetti e modelli già presenti nelle retoriche coloniali. A mio parere, se i coltivatori africani sono riusciti a vivere per secoli sulle loro terre, delle competenze le avranno pur sviluppate. Probabilmente si tratta di adattarle alle mutate esigenze dei nostri tempi, invece di rimuoverle. Questo è solo un esempio, ma può essere esteso ad altro, come l’ossessione di quasi tutti i governi africani con la necessità di sedentarizzazione dei nomadi e così via. Una maggiore consapevolezza storica da parte delle classi dirgenti africane potrebbe servire anche a impostare meglio le politiche economiche e sociali».

Francesca Materozzi