Incontri

A proposito di seconde generazioni

Arianna Liuti - 17 Giugno 2014

seconde gen«L’autre me regarde», scriveva Levinas, il filosofo francese di origine lituane. L’altro “mi guarda” e, allo stesso tempo, “mi riguarda”, nell’accezione più ampia di “mi concerne”. La sfida nella sfida, quella che sprona al ripensamento del concetto noi-voi, infatti, implica nei confronti dell’altro, un rapporto sì di riconoscimento e tolleranza, ma anche e soprattutto un legame di responsabilità. L’altro è sempre più vicino, è il nostro compagno di banco, lavora con noi. E se l’incontro (e talvolta lo scontro) con il diverso implica una rimessa in discussione del proprio Io, il vero confronto si realizza solo quando saremo riusciti a conciliare la ricerca della nostra identità e l’accettazione del pluralismo.
Ci sono casi, però, in cui parlare in termini di “altro” o di “diverso” risulta quanto di più lontano dalla realtà: parliamo delle seconde generazioni, termine indicativo di tutti quei ragazzi nati o cresciuti in Italia, che si sentono italiani e che appartengono socialmente e culturalmente all’Italia. L’integrazione e, ancor meglio, il loro inserimento all’interno della nostra società, hanno costituito le macro tematiche affrontate lo scorso giovedì, in occasione del convegno Seconde generazioni: tra integrazione e identità,  organizzato a Roma dal Msoi (Movimento Studentesco per l’Organizzazione Internazionale).
Si tratta di giovani uomini e donne che si trovano a dover fare i conti con veri e propri atti di stupidità e che si scontrano spesso contro le barriere dell’intolleranza, senza sapere bene il perché (nell’ipotesi, alquanto forzata, che possa esserci un motivo che conduca al razzismo o che la stupidità stessa possa essere una giustificazione a comportamenti xenofobi). Sono ragazzi e ragazze che vengono definiti “immigrati”, nonostante cantino a pieni polmoni l’inno nazionale, frequentino le scuole italiane e contribuiscano socialmente, culturalmente ed economicamente al nostro arricchimento (circa il 12% del Pil nazionale). È il caso, tra i tanti, di Aminata Mariata Diop, fieramente abruzzese e originaria del Senegal. Non vi è un “ma” tra l’essere di Carsoli e l’avere origini africane, appositamente. Sarebbe bello, infatti, contribuire, anche solo con le parole, all’eliminazione dei complessi di identità che questi ragazzi soffrono e accettare la loro natura duplice, senza sottolinearne necessariamente la contrapposizione. Eppure, il fatto che vengano loro riconosciuti solamente i doveri dell’essere italiani, ma non i diritti, li porta a non sentirsi né appartenenti al nostro Paese né a quello di origine. Invece della compresenza di due nazionalità, si rischia la solitudine: «Sappiamo solo quello che non siamo», ha affermato polemicamente Mariata; «vorrei essere me stessa, per una volta, e non rappresentare un gruppo o una generazione», è la stessa opinione, teneramente infastidita, di una delle protagoniste del film Il futuro è troppo grande, con la regia di Giusy Buccheri e Michele Citoni, che ha fatto da pretesto all’incontro.
Tanti, i modi diversi di affrontare l’essere cittadini di fatto, e non di diritto. Tanti, quindi, gli uomini e le donne nelle medesima condizione: «Circa 5 milioni le persone di origine straniera, di cui 1 milione i ragazzi e le ragazze cresciuti nel nostro Paese» ha ricordato l’onorevole Khalid Chaouki. A fronte di questa multiculturalità, però, vi è un unico obiettivo: costruire il dialogo, con la consapevolezza che i cambiamenti non sono solo demografici, ma anche e soprattutto sociali. Dovremmo iniziare a capire che il mutamento cui assistiamo, per dirlo in altri termini, non è nella, ma “della” società. È un compito importante, perché obbliga tutti, nessuno escluso, all’integrazione. In tal senso, un segnale positivo lo raccoglie l’Istat, secondo il quale il 71% della popolazione italiana si dice pienamente d’accordo alla concessione della cittadinanza alle seconde generazioni. Che l’Italia abbia finalmente imparato a non vivere come una provocazione la presenza in Parlamento di un deputato “diversamente colorato”? Che abbia iniziato a ricordare il suo ruolo all’estero nel corso degli anni? Non occorre viaggiare con la memoria e tornare ad epoche, di cui non sentiamo la nostalgia. Basta pensare, infatti, agli italo-americani Bill De Blasio, sindaco della Grande Mela, o a Leon Panetta, capo della Cia statunitense fino a qualche anno fa, che hanno rivendicato sempre orgogliosamente le proprie origini. È proprio in virtù del nostro passato e del nostro presente, quindi, che dovremmo rivolgere l’attenzione non solo all’aspetto problematico del fenomeno immigrazione, attraverso enti essenziali come l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale) che prestano ascolto alle vittime del razzismo, ma anche ad una società nuova, che sia dichiaratamente contro la discriminazione.
Se nascere nello stesso ospedale non ci rende figli di una stessa comunità, se la prima domanda che poniamo a questi giovani, figli di immigrati, non è “come ti chiami?”, ma “da dove vieni?”, la battaglia è persa in partenza. «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali», recita l’art. 3 della Costituzione. «È compito della Repubblica – prosegue al secondo comma – rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Precondizione per la parità, dunque, è la cittadinanza.
Lo ius soli è applicato in molti Paesi del mondo, con modalità differenti: in Brasile, in Argentina, in Canada e altri Stati del continente americano, ad esempio, vi è la concessione di questo diritto in modo incondizionato. Si tratta di popoli che hanno fatto la propria fortuna sull’immigrazione e che devono questa apertura alla loro tradizione. Il Presidente della Sioi, Franco Frattini, ricorda, infatti, mettendo in parallelo il comportamento europeo a tal riguardo, come le origini euroasiatiche, indiane, o pakistane, non precludano all’americano la possibilità di sentirsi attaccato alla bandiera a stelle e strisce. In quest’ottica, la ricerca di un modello italiano diventa ineludibile: può lo ius sanguinis, basato su una storia di migranti, adattarsi ancora ad un Paese che è divenuto di immigrazione?
Qual è, ad oggi, la discriminante che non permette ad un bambino che nasce in Italia, che apprende la nostra lingua (e i nostri dialetti), di essere considerato italiano? La sua pelle nera? Gli occhi a mandorla? «L’Italia è pronta» è stato uno degli slogan di Cécile Kyenge, durante la sua campagna elettorale. La neo-europarlamentare, che è intervenuta nel corso della conferenza, ha consegnato poche settimane fa una lettera al Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in cui ha chiesto una riforma della cittadinanza dedicata proprio alle seconde generazioni. «Abbiamo già perso troppo tempo – scrive Kyenge – La politica deve avere il coraggio di prendere una decisione […] Tutti i bambini che abbiamo incontrato sono la nuova Italia, ma un milione di loro non ancora cittadini italiani. Faccio una proposta semplice e chiara: chi nasce e cresce in Italia, entri in classe il primo giorno di scuola elementare da cittadino italiano».
L’importanza di messaggi concreti, come mettere al corrente i diciassettenni del loro diritto alla cittadinanza, l’eliminazione dell’anno di attesa perché venga loro riconosciuta, l’obbligo all’informazione da parte dei Comuni e la possibilità di dimostrare il legame con il territorio non solo attraverso il certificato anagrafico, ma anche con quello scolastico e medico, sono solo alcune delle conquiste che sono state raggiunte. Questi i segnali tangibili di una trasformazione in atto, che coinvolge tutti. Perché un’idea, anche se legittima, finché resta tale, «è soltanto un’astrazione», recitava Gaber, in una famosa canzone. Dobbiamo fare nostra un’integrazione gratuita, che non si aspetta e non pretende reciprocità. Altrimenti, cadiamo nell’errore di farci scudo solo di «tante cose belle, che abbiamo nella testa, ma non ancora nella pelle»… di qualsiasi colore essa sia.

Arianna Liuti