Arezzo

Se sono i migranti ad aiutare i rifugiati

Francesca Materozzi - 16 Luglio 2014

immigrati«Da una situazione analoga siamo passati anche noi. Perciò capiamo perfettamente i problemi di chi chiede asilo. E dato che ci siamo sentiti accolti in questo territorio, ci è sembrato giusto, a nostra volta, metterci a disposizione degli altri». Così Tito Anisuzzaman, immigrato del Bangladesh residente ad Arezzo ormai da parecchi anni, a proposito delle ragioni per cui l’associazione che presiede (l’associazione Culturale del Bangladesh), ha cominciato a occuparsi di accoglienza. Lo fa da qualche mese, in accordo con la Prefettura, a beneficio dei profughi che stanno arrivando sulle coste siciliane.

È cominciato tutto con l’Emergenza NordAfrica, nel 2011. Alcuni esponenti della comunità bangladese, numerosa e ben radicata sul territorio, si resero disponibili ad accogliere una famiglia proveniente dalla Nigeria. Non avevano competenze tecniche in materia e per queste si appoggiarono ad altre realtà con le quali avevano intessuto relazioni visto che l’associazione di Anisuzzaman da anni organizza eventi aperti a tutti, per far conoscere la cultura bengalese e gestisce sportelli informativi. L’intervento andò benissimo, la famiglia nigeriana riuscì a inserirsi. Questo impegno continuativo è stato riconosciuto anche dagli italiani e ha permesso loro di ottenere credito e fiducia e quando quest’anno è stato proposto loro di ripetere l’esperienza, hanno accettato. E così è stato possibile “sistemare” 18 persone, provenienti dal Mali e dalla Nigeria. Per questa nuova fase, decisamente più impegnativa della precedente, sono stati assunti però anche degli operatori con esperienza.

Appena i migranti sono arrivati è stata fatta una riunione di presentazione. «Ci ha fatto impressione sentir chiedere dove fosse il Bangladesh», racconta Paola Miraglia, una delle autoctone professionalmente già formate. Cooptare i membri della comunità, in ogni caso, non è sempre facile. Infatti non tutti capiscono perché a certe persone sia riservata una forma di accoglienza e ad altri no, quale sia la differenza tra migrazioni forzate ed economiche. Soprattutto perché quest’ultime sempre più spesso sono conseguenze di disastri ambientali direttamente o indirettamente riconducibili al cambiamento climatico. Tutti hanno dovuto affrontare il trauma dell’abbandono della propria terra, lo sradicamento e le difficoltà legate all’emigrazione. Perché, allora, i percorsi di inserimento sono diversi? Perché uno rimane solo sulle spalle del migrante mentre l’altro, almeno in teoria, è sostenuto dallo Stato? In Bangladesh poi è molto forte il pregiudizio rispetto alla pelle nera e anche questo fattore è da tenere in considerazione in questo contesto. Ma nel complesso la risposta della comunità è stata positiva. «Per ora – afferma l’operatrice Paola Miraglia – non ci sono stati problemi. Per evitarne in futuro è essenziale alimentare un dialogo continuo e la volontà di confronto».

Si tratta di un percorso “importante”, per i bengalesi e per gli operatori. «Lavorare con dei migranti che ospitano altri migranti è arricchente e professionalizzante», osserva Miraglia. «Infatti, operare a stretto contatto con chi ha già avuto questa esperienza in passato permette di approcciarsi agli utenti con un bagaglio culturale ed esperienziale maggiore, che altrimenti sarebbe risultato difficile anche solo immaginare».

Francesca Materozzi