Cinema

L’impegno a Venezia

Luca Leva - 6 Agosto 2014

La-bas-Educazione-Criminale-Foto-004Alla Mostra del Cinema di Venezia, verrà presentato, con grandi aspettative, nella sezione Orizzonti, il documentario di Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry e Antonio Augugliaro, dal titolo Io Sto con la sposa. Un lavoro impeccabile con cui si prova a parlare, utilizzando trame e linguaggi diversi dai soliti, delle problematiche connesse all’asilo e all’accoglienza. Non è la prima volta che il cinema si apre a riflessioni connesse a tematiche come l’immigrazione, l’inclusione, a storie individuali o collettive che mettono in primo piano il tema dell’alterità o del viaggio. Spesso hanno anche un certo successo durante gli eventi di altro spessore artistico ma, cessato l’evento faticano a trovare distribuzione e possibilità di trovare propri circuiti di diffusione. Restano insomma nella nicchia degli addetti ai lavori.
Più di due anni, sempre a Venezia, venne premiato Là- Bas del documentarista Guido Lombardi. Un film che ha fatto molto discutere perché ha provato ad entrare in un contesto poco esplorato e complesso. Ancora oggi continua ad essere proiettato soltanto nei circuiti underground, nelle sale ha girato ben poco e neanche in tv ha trovato spazio. Ne ripercorriamo, col regista, la realizzazione.
Come è nato questo progetto?
«L’idea di un film del genere, in realtà, nasce da una mia esperienza diretta. Mi sono avvicinato al mondo africano iniziando a girare video alle loro feste fino a diventarne quasi il videomaker ufficiale. Le comunità africane spesso organizzano serate in cui gli elementi principali sono la musica e il ballo e ci tengono molto ad immortalare quei momenti; i video che facevo io servivano proprio a questo. E’ attraverso questa esperienza che inizio conoscere una dimensione per me nuova. Da qui dunque, nasce il desiderio di raccontare, condividere, d’accordo con questi ragazzi con i quali intanto nasceva un’amicizia».
Una storia che parte molto dalla cronaca, dalla tragica strage di lavoratori immigrati a Castel Volturno
«Si, la sceneggiatura era già stata riscritta diverse volte e mentre ero alla ricerca di finanziamenti ci fu la strage. Mi sembrò inevitabile, a quel punto, agganciarmi ancora di più alla realtà intersecando questo tragico evento con la storia che avevo scritto che già rispecchiava, peraltro, vissuti reali di uomini e donne che avevo conosciuto. Tra l’altro si consideri che buona parte del cast è composto da africani non attori che abbiamo selezionato facendo dei provini nelle case da loro occupate sul litorale domizio».

Anche la storia del protagonista, il cui nome reale è Kater ha molto in comune con quella di Iussef il personaggio che interpreta
«Si, kater arriva in italia con la promessa di un lavoro, di un aiuto. Appena arriva, però, viene scaricato e gli viene comunicato che purtroppo non è più possibile aiutarlo. Gli vengono dati giusto i soldi per un biglietto del treno, poiché lui era a Milano, e gli viene consigliato di venire a Napoli per l’assenza di controlli. Lui arriva e si ritrova in una di quelle case in cui si ammassano le comunità africane, del tutto simile a quella che appare nel film. Kater fa amicizia con uno degli abitanti della casa e con lui decide di spostarsi in un’altra casa. Trova, come nel film, un lavoro in un autolavaggio con il quale, sottopagatissimo, inizia a sopravvivere. Una sera si ritrova la polizia in casa, venuta per arrestare il suo coinquilino, ormai divenuto un fratello per lui, il quale intanto si era messo a spacciare. Insomma nel film di inventato c’è ben poco, poi è chiaro, quando scrivi una sceneggiatura fai in modo che il tutto si incastri e magari inserisci anche eventi che pur non appartenendo al vissuto specifico della singola persona che recita servono a dare un quadro della situazione».

Nel film si racconta molto di come i protagonisti cercano di camuffare le proprie reali condizioni di vita inviando messaggi in cui ostentano ricchezza ai parenti rimasti in Africa
«Si, è proprio così. Nel film ad un certo punto c’è una scena in cui uno di loro si fa fotografare da Iussuf, il protagonista, davanti ad un macchinone con gli occhiali da sole. Questo è il modo con il quale si tenta di mascherare quello che viene vissuto come un fallimento. È un modo per dire “io ce l’ho fatta”. È così che arrivano in tanti con il miraggio della ricchezza, o almeno di un lavoro decente e si ritrovano proiettati in una realtà dove miseria, sfruttamento e sopraffazione la fanno da padrone.
Addirittura c’è chi mi ha parlato del “virus dell’immigrazione”: ti ritrovi nel tuo villaggio, dove, un giorno parte il tuo vicino, il giorno dopo un tuo parente e così via. Per loro è davvero il viaggio della speranza e quindi, poi, quando si ritrovano in una realtà che supera, anzi scavalca, di gran lunga le loro aspettative iniziano a raccontare un sacco di bugie a chi è rimasto in africa. Di norma tutti arrivano qua con un progetto ben preciso: fare i soldi e tornare in africa. Poi è chiaro che lavorando nei campi o vendendo fazzoletti ai semafori riesci a stento a garantirti la sopravvivenza. Se entri nel giro della droga i soldi li fai ma prima che tu abbia il tempo di tornare in africa o sei in galera o sotto terra».

In Là Bas non c’è lieto fine, non si intravvedono speranze di riscatto per i protagonisti
«Anche questo è un elemento fortemente legato alla realtà. Bisogna rendersi conto che, per le condizioni materiali in cui si ritrovano questi uomini, è difficile non prendere strade sbagliate. Tutto sommato è anche difficile biasimarli, non è che abbiano molte alternative. E’ un po’ come a Scampia o in tanti altri quartieri poveri e abbandonati dallo stato, opportunità non ce ne sono, l’unica spesso è la criminalità. Quella poi si rivela sempre una falsa alternativa e il più delle volte non c’è tempo e modo di tornare indietro. Va detto però che parliamo dell’1%, mentre il restante 99% continua semplicemente a spaccarsi la schiena nei campi per pochi euro o a marcire sotto il sole di un semaforo per ancora meno. Tutto questo può sembrare meno brutto, cattivo, illegale, ma alla fine non lo è. Questa non è dignità».

Che diffusione è riuscito ad avere finora?
«Questo è un film che avendo vinto un premio ha sicuramente avuto un’eco notevole. Tuttavia la diffusione nelle sale è avvenuta sei mesi dopo l’uscita ed in numero limitatissimo, appena 12 copie. Questo lo cataloga senza dubbio come un prodotto di nicchia. La gente non va più al cinema come una volta e l’età media si è abbassata, le sale addirittura chiudono. Si ha come l’impressione che si voglia solo ridere e che quel pubblico potenzialmente destinatario di un’opera del genere si sia rinchiuso in casa. In termini economici può addirittura non convenire fare un film così. Se non fosse stato per dei produttori illuminati che hanno investito le poche risorse interamente nella riuscita del film e di un premio vinto al festival di Venezia ci avremmo solo rimesso. In definitiva la diffusione dipende molto dalle risorse che si riescono a mettere in campo e i linea di massima si punta molto di più su contenuti, diciamo così, un po’ più leggeri che possono attirare il grande pubblico più facilmente».
Luca Leva