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Vivere per addizione, la lezione Arbëreshë

Francesco Ferrari - 30 Gennaio 2015

ARBERIAMi capitava spesso da ragazzino che, trovandomi ad un routinario controllo di polizia, l’agente di turno, dopo aver studiato i miei documenti con vaga diffidenza, mi chiedesse: «Ma sei italiano, sì?». Ora, il luogo di nascita rimandava ad una cittadina del sud, la sigla che lo seguiva, CS, indicava inconfondibilmente la provincia di Cosenza e, se questa non fosse stata prova sufficiente a dimostrare da dove io venissi, alla voce “cittadinanza” appariva poi, stampata in caratteri maiuscoli, la dicitura “italiana”.
Ciò che destava perplessità era dunque il comune di residenza il cui toponimo – scritto in italianissima grafia – s’accompagnava e s’accompagna ancora all’incongruo, difforme, sospetto aggettivo “albanese”. Incongruo e difforme perché perfettamente integrato a coordinate italiane, sospetto perché rimandava ad un’origine illirica che in quegli anni (siamo sul chiudersi dei Novanta), popolava ansie e paure collettive. Ebbene, quello stesso aggettivo veniva però a manifestare una realtà incontrovertibile e a molti ignota: la presenza dell’alterità in casa. Non già quell’alterità che satura oggi le cronache di un’Italia impreparata allo straniero, bensì la presenza antica di una comunità che per secoli ha vissuto a cavallo tra due culture, in una costante tensione tra mescolanza e conservazione che oggi sarebbe un utile esercizio per imparare a farsi ospiti e farebbe di questa comunità ideale, l’Arberia, che si estende dal Molise alla Sicilia, un’ottima palestra per il buon anfitrione.
Occorrerà però prima tornare per un momento all’origine; origine che per me è il luogo da cui scrivo: Vaccarizzo Albanese, piccola comunità di mille e poche più anime tra le colline dell’alto Jonio cosentino. L’anno di fondazione è datato attorno al 1470, quando sotto la spinta dell’avanzante impero ottomano molti esuli albanesi ripararono sulle coste del meridione. Ai “figli” di Skanderbeg, condottiero dell’Albania eletto dalla chiesa di Roma atleta di Cristo, furono date in concessione le terre dove sorsero i primi insediamenti italo-albanesi. La storia degli Arberëshë inizia dunque da qui, e da qui prosegue fino all’età moderna, risalendo i secoli lungo percorsi troppo articolati per potersi ora squadernare (per approfondimenti rimando al portale www.jemi.it).
Ciò che importa qui dire è che quanto arrivò assieme a quei primi transfughi, esso pure ha risalito i secoli: memoria storica, canti, costumi, rapsodie, rito greco bizantino, e la lingua. Soprattutto la lingua. Che si è mescolata ai dialetti regionali, si è ibridata, imbastardita, erosa, in qualche caso perduta, ma nel complesso si è conservata. Ed è qui che si realizza il senso profondo dell’esperienza arbrëshe, nel mantenimento cioè di una lingua viva. Agonizzante certo, ma viva: tutto il resto, la storia, le tradizioni, sono solo aspetti di un’identità che senza la lingua non troverebbe cittadinanza se non nelle sale di un museo etnografico. Insomma, essere arbrësh è parlare arbrisht (come sostiene Ettore Marino in Un giovane trifoglio tra le spine. Meditazioni sull’albanesità, Castrovillari, Grafica Pollino, 2014).
Quanti però siano questi parlanti è dato di incerta stima. Corre voce per il web che siano circa centomila, ma l’attendibilità della vox populi 2.0 non è confermabile dal momento che ogni statistica (ufficiosa, si badi bene) sembra essersi arrestata agli anni Settanta, lasciando intravvedere una preoccupante disattenzione da parte delle istituzioni nei confronti delle minoranze. Per contro negli ultimi decenni si è approdato ad importanti traguardi nella salvaguardia dell’arbrisht, e non solo: ne è esempio la legge 482/1999 che, in ossequio all’articolo sei della nostra Costituzione, finalmente riconosce e tutela, entro un preciso quadro normativo, l’esistenza delle lingue minoritarie. Approdo tardivo si dirà, a fronte di cinquecento anni di vitalità linguistica non priva d’una sua letteratura, ma tant’è!
Oggi dunque che questa lingua, lo si è detto, agonizza – e con essa la cultura a cui dà voce – fiorisce una retorica della tutela e della salvaguardia a testimonianza dell’affanno che ci si dà per salvarsi dal passato, dal diventare passato. Urge perciò chiedersi come tale passato possa riattualizzarsi, darsi un senso nuovo nella contemporaneità, un senso che non si risolva nella mera conservazione di un milieu culturale. Io che da arbrësh questa domanda me la sono fatta spesso, ho sempre creduto che una possibile risposta possa provenire ancora una volta dalla lingua. È infatti l’esperienza dell’ibridità linguistica, che noi, consapevoli o meno, facciamo quotidianamente, ogni qual volta saltiamo sul predellino ora dell’una ora dell’altra nostra lingua, a metterci in comunicazione col presente. Ma non solo. C’è forse nella nostra doppia appartenenza linguistica anche una scintilla di futuro. In uno scenario infatti in cui ormai altre lingue convivono con l’italiano, l’alloglossia degli Arbëreshë offrirebbe forse il modello di un’antica e riuscita ibridazione culturale, a volerla soltanto guardare sotto questa angolatura.
È questa pure, in buona sostanza, la risposta che mi dà Carmine Abate quando durante la presentazione del suo romanzo La festa del ritorno gli chiedo cosa abbia da insegnare l’esperienza arberëshe all’Italia di oggi. «A vivere per addizione» mi risponde, a seguire cioè la strada di quella praticata, e in fondo per noi costituitiva, pluralità che accoglie e aggiunge altre appartenenze, altre lingue alla propria identità d’origine e con essa farle convivere, se proprio non senza soluzione di continuità, almeno senza tagli, né fratture, né ferite. In fondo, di noi si parla come di comunità italo-albanesi, dove nei giorni di festa o di sagre il tricolore e l’aquila bicefala sventolano parallele; siamo dunque anche noi “italiani col trattino”, hyphenated, come si dice a proposito delle seconde generazioni. E anche se il trattino è sbiadito, o riemerge talvolta nelle forme di un nostalgico revivalismo folklorico, il trattino c’è, e non è un taglio, né una frattura, né una ferita. Ecco cosa possiamo dire noi Arbëreshë all’Italia di oggi. «Ma», conclude lo scrittore con un’amara nota di rassegnazione, «non ci ascoltano».

Francesco Ferrari