Kurdistan

Campi profughi, i vantaggi dell’autogestione

Eleonora Corace - 22 Febbraio 2015

rojava 5,5 milioni di persone sono state costrette a scappare a causa delle guerre solo nel primo semestre del 2014, quasi 3,4 milioni in più rispetto alla fine del 2013. Scrive l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati nel report Mid-Year Trends, pubblicato il 7 gennaio scorso, che di questi profughi «1,4 milioni è fuggito attraverso i confini internazionali, mentre il resto è sfollato all’interno dei propri Paesi».
Sempre dai dati UNHCR sappiamo, ad esempio, che il Pakistan ospita 1,6 milioni di rifugiati afghani. Altri paesi con una popolazione di profughi numerosa sono il Libano (1,1 milioni), l’Iran (982.000), la Turchia (824.000), la Giordania (737.000), l’Etiopia (588.000),  il Kenya (537.000) e il Chad (455.000).

Il 2014 segna anche un triste primato: quello dei Siriani che. con oltre 3 milioni di profughi stimati nel mese di giugno, sono diventati la principale popolazione “in fuga” a livello mondiale, scavalcando dopo 30 anni gli Afghani. Se fino al 2013, infatti, il maggior numero di rifugiati si concentrava in Asia e nel Pacifico, la crisi siriana ha spostato questo primato nell’area Medio Orientale-Nord Africana. Proprio da uno degli scenari più caldi del conflitto siriano, ossia dalla zona del Kurdistan siriano intorno alla città di Kobane, tre volontari italiani, partiti agli inizi di gennaio dalla Sicilia, hanno fornito preziose testimonianze sulla vita degli uomini e delle donne che vivono nei campi profughi allestiti al confine con la Turchia. Nel cantone di Kobane, secondo i dati forniti dal governatore Enwer Muslim, su 525 mila civili solo 25 mila risiedono attualmente in città.
In questo contesto, è interessante la particolarità di alcuni campi profughi non “ufficiali” ma autogestiti coralmente da varie realtà locali: ad esempio, quello curdo di Gulancela.

Intorno a Kobane – Nei pressi della città siriana sono presenti quattro campi profughi. Di questi, uno è gestito dal governo turco mentre gli altri tre sono diretti dai curdi in autogestione. Il campo di Gulancela, ad esempio, sorge su un terreno concesso da un privato, cosa che lo rende formalmente inaccessibile anche alle truppe dell’esercito turco, che ogni tanto svolgono operazioni di controllo esclusivamente all’esterno.
I rifugiati curdi di Kobane lamentano che nel campo governativo, gestito dalla Turchia, non è permesso ai rifugiati utilizzare la propria lingua madre, il kurmanji. Per questo motivo la maggior parte dei Kurdi preferisce stanziarsi nelle strutture auto-organizzate, il cui status giuridico rasenta la semi-illegalità.

A Gulancela il numero di rifugiati si attesta attualmente tra le 7 mila e le 8 mila presenze ed è ad oggi il più popolato; solo un mese fa era già abitato da circa 5 mila rifugiati, di cui più o meno la metà minorenni. Il numero dei profughi si attesta poco al di sotto di questa cifra anche nelle altre strutture autogestite. Differente è il campo organizzato dal governo turco: esso disporrebbe di ben 42 mila posti ma solo un paio di migliaia sono occupati, nonostante la maggiore comodità rispetto agli spazi autogestiti dai curdi. Agli agi dei campi governativi – come un pocket money giornaliero e alcuni elettrodomestici – corrispondono, infatti, secondo i racconti di chi li ha conosciuti, un elevato livello di controllo e la “semi detenzione” tipica dei centri d’accoglienza di cui abbiamo numerosi esempi anche in Italia.

Il campo di Gulancela viene gestito tramite meccanismi assembleari a cui prendono parte i responsabili (che cambiano di settimana in settimana) – per lo più curdi di Kobane, civili o combattenti -; i membri del Pdb (Partito Democratico Curdo Turco), attivo con volontari nel campo, e i membri del Pid (Partito Democratico Curdo Siriano), presente nella logistica. Alla gestione non prendono parte i Peshmerga.
Molti sono i volontari provenienti da varie parti d’Europa. Le attività e l’assistenza nel campo vengono pianificate in una tenda di coordinamento posta all’ingresso.

Il ruolo dei volontari – I volontari presenti possono aiutare o recandosi direttamente nei campi profughi, oppure dando una mano a smistare il cibo ad Avesta, dove si cucinano i pasti caldi. Quello di Avesta è un grande magazzino situato nella città kurda di Suruc, nei pressi del centro culturale di Amara, ed è una struttura che svolge il ruolo di polo polifunzionale adibito all’accoglienza degli internazionali, oltre ad essere una base operativa del movimento curdo.
L’aiuto dei volontari dentro i campi può concretarsi nel dare una mano a montare le tende oppure nel fare animazione alle le migliaia di bambini che arrivano con le loro famiglie. “Così – ci raccontano i tre volontari italiani – giochiamo con loro riuscendo a spiegare con i gesti alcune regole, usando il corpo in acrobazie e giochi di prestigio”.

Vita nel campo – Gli aiuti umanitari hanno consentito l’acquisto di tende e bagni chimici. Questi ultimi, però, al momento sono inagibili visto che non è stato collaudato un adeguato sistema di scarico. Il campo viene rifornito d’acqua ogni giorno per due ore, durante le quali le persone si affollano a raccoglierne il necessario per l’intera giornata. Talvolta però manca l’acqua potabile.
Il cibo viene portato nel campo da un furgone. La dieta non è varia né equilibrata dal punto di vista nutrizionale, essendo basata quotidianamente solo su legumi e bulgur (un particolare tipo di frumento integrale, molto diffuso in Medio Oriente). Nessuna traccia di frutta e verdura.

Assistenza sanitaria – Ogni giorno ciascuno dei rifugiati (almeno in teoria) ha la possibilità di ricevere i farmaci di cui necessita e di un po’ dı cure medıche ın un contaıner situato vıcıno all’ıngresso. Spesso però, non c’é modo dı ıntervenıre ın tempo rıspetto a cası dı partıcolare gravıtà. Questo sıa a causa della situazione di emergenza, sıa per l’organızzazıone del dıpartımento dı salute, che prevede che i volontari medici cambino ogni settimana, non garantendo contınuıtà dı cura, analısı e dıagnosı delle malattıe.

Riscaldamento ed energia – Dentro ıl campo, per lungo tempo i rifugiati non hanno potuto disporre di energıa elettrıca, che in seguito è stata abılmente ottenuta ın manıera abusıva collegando manualmente ı cavı e montando tralıccı, in un lavoro collettivo svolto dagli stessi inquilini della struttura. Un altro problema è quello del riscaldamento: il terrıtorıo é aperto, pıaneggıante, monocoltıvato a grano, senza alberı. La legna è rara, dunque, e il gas passa dırettamente dall’Iran a Istanbul senza fermarsı ın Kurdıstan. L’assenza dı carbone è sopperita dall’utilizzo di un carbone chımıco illegale, tossıco e molto costoso.

Mercato nero – Gli squilibri economici tra le persone all’interno del campo diventano palesi principalmente in due situazioni: all’interno di un mını-mercato dı frutta e verdura realizzato all’interno dello spazio e nella prıorıtà, data da alcune famıglıe, all’ıstallazıone dı parabole satellıtarı sulle tende a dispetto di altre necessıtà collettıve. “Il fenomeno del mercato ınterno – raccontano i volontari – gıoca sul fatto che alcunı hanno maggiori possibilità rıspetto ad altrı dı recarsı ın cıttà per acquıstare frutta e verdura e rıvenderle a prezzı maggıoratı, approfıttando della sıtuazıone dı emergenza”.

Eleonora Corace