In questo numero

Il “caso” e le “cose”

Stefania Ragusa - 22 Febbraio 2015

La scorsa settimana, lo ricorderete, è esploso il “caso” dei secondini che, in seguito al suicidio di un detenuto rumeno nel carcere di Opera, Ioan Gabriel Barbuta, condannato nel 2013 all’ergastolo per omicidio, davano il meglio di se stessi sulla pagina Facebook dell’Alsippe, uno dei sindacati (minori) di polizia penitenziaria. I commenti erano di questo tenore: “uno di meno”, “speriamo abbia sofferto”, “mettere a disposizione più corde e sapone”…
I giornali hanno riportato con grande enfasi la notizia, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) ha subito avviato un’indagine formale (che al momento ha portato a 16 sospensioni), il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è intervenuto sdegnato e promettendo la massima fermezza verso i colpevoli. Che sono tali, non c’è dubbio. Però, in tutta questa vicenda, c’è qualcosa che stona o, meglio, risuona tremendamente ipocrita.
In primo luogo, è il fatto che i secondini siano diventati “il caso”, quando è evidente  che “il caso”, quello che dovrebbe mettere in moto chi ci governa, riempire le prime pagine dei giornali e colmare di sdegno le nostre coscienze, è un altro: la condizione insostenibile e disumana delle nostre carceri, l’inadeguatezza del sistema carcerario, l’indifferenza verso i detenuti, in particolare se stranieri e/o privi di cognomi eccellenti.
I commenti inqualificabili dei secondini sono poi perfettamente allineati con il populismo razzista di una certa parte politica (che occupa, impunita, anche eccellenti poltrone) e con la disattenzione  generale di un’altra, avezza a stigmatizzare il politicamente scorretto ma poco interessata a cambiare davvero le cose. E le “cose”, unite al vergognoso sovraffollamento delle celle, sono queste: nel 2014 i suicidi in carcere sono stati 43, quasi uno alla settimana. Dal 2000 ad oggi i carcerati che si sono tolti la vita sono stati 850. Ma non basta: nel 2014 a suicidarsi sono stati anche dieci agenti penitenziari. Il sistema penitenziario non rieduca, non recupera, non riabilita: è un trita-esistenze e colpisce anche chi ci lavora dentro. La responsabilità no, non è di un manipolo di agenti penitenziari, pur inqualificabili e allarmantemente sciocchi.

Questa settimana apriamo con un altro “caso” che, finito Sanremo, ha rapidamente guadagnato spazio sui giornali: l’Isis in Libia e lo spettro della guerra che incombe sul Mediterraneo. Fulvio Vassallo Paleologo ci spiega che lo scenario reale non è quello “agitato” dalla maggior parte dei media, e si sofferma sulle responsabilità dell’Europa e sui passi, concreti, che nell’interesse di tutti, potrebbero e dovrebbero essere compiuti.
Marco Omizzolo, grazie al quale abbiamo potuto conoscere le condizioni di sfruttamento patite dai migranti indiani nell’Agro Pontino, ci racconta di una vertenza aperta da poco, grazie alla coraggiosa collaborazione dei lavoratori, che potrebbe davvero indurre caporali e padroni a cambiare verso.
Eleonora Corace propone una testimonianza dai campi profughi autogestiti del Kurdistan. Chiara Zanini tratteggia un bilancio della presidenza italiana in Europa in materia di immigrazione.
Sergio Bontempelli ci parla di Fuori Campo, un documentario che racconta la vita quotidiana di rom che non sembrano rom, perché si discostano dagli stereotipi dominanti. Gabriella Grasso ci porta in Burkina Faso, dove tra qualche mese ci saranno le elezioni, attraverso un graphic-book dedicato a Thomas Sankara. La sottoscritta, invece, vi parla di Olga Schigal, una giovane artista di origine russotedesca, che adesso lavora stabilmente a Milano, e ama misurarsi su concetti come l’identità e l’appartenenza.

La scor-data di questa settimana, firmata da Sandro Mezzadra, è il 23 febbraio 1868, il giorno in cui nasceva William Edward Burghardt Du Bois, grande intellettuale afro-americano, pietra miliare nella riflessione sulla blackness.

Buona lettura e buona settimana a tutti.

Stefania Ragusa
direttore@corrieredellemigrazioni.it