Cara e dintorni

Gradisca d’Isonzo, il mondo al rovescio

- 5 Aprile 2015

Al Cara di Gradisca D’Isonzo accade che il mondo si rovesci, tanto da rievocare il tipico esempio da scuola di giornalismo – “uomo morde cane” – usato per indicare che cosa fa notizia e cosa, invece, rientra nell’ordinario. Succede che i dipendenti della Connecting People – la cooperativa che un tempo gestiva anche un famigerato Cie e che, adesso, si occupa del Cara friulano – da ottobre non percepiscano alcuno stipendio. E poi avviene che i soli che si stanno preoccupando di aiutarli, con i pochi mezzi a loro disposizione, siano gli stessi richiedenti asilo.

Coinvolte sono tutte le figure impegnate nel centro: dagli operatori veri e propri, ai mediatori, ai magazzinieri, ai legali, e peggio va per tutto il personale che era stato preso, esternalizzando i servizi, mediante partita Iva. Molti di questi ultimi, soprattutto medici e infermieri, hanno trovato altro lavoro e non operano più nel centro, ma le fatture di alcuni non vengono pagate da un anno. Le responsabilità vengono rimbalzate fra la locale Prefettura e la Cooperativa stessa, ma i lavoratori non riescono a venire a capo delle reali responsabilità. Forse sarebbe necessario un intervento chiarificatore del governo che, però, tarda a venire.
Nel frattempo, per una parte dei dipendenti, sta anche per scadere il periodo di cassa integrazione che avevano ottenuto e il rischio è quello di trovarsi senza un reddito. L’attesa, unita all’incertezza per il futuro, sta portando molti all’esasperazione. A due dipendenti è stato diagnosticato un esaurimento nervoso. Uno, caduto in depressione, ha già tentato il suicidio mentre un altro si è ritrovato sfrattato, perché non si poteva più permettere di pagare l’affitto. Altri ancora hanno problemi ad andare al lavoro, perché non possono permettersi la benzina oppure perché non hanno neanche i soldi necessari per rinnovare l’assicurazione della propria automobile.

Una delle operatrici ha raccontato a un giornale locale che «un richiedente asilo, consapevole delle nostre difficoltà, ha voluto pagare le merendine che mio figlio si porta a scuola. E voleva darmi anche i soldi per un paio di pantaloni. Mi ha detto: “prenditeli tu, stai peggio di me in questo momento”». Chi ci ha parlato racconta di una situazione di disperazione diffusa. Qualcuno vorrebbe anche portarsi a casa i pasti precotti che avanzano – ma, per regolamento, questi devono essere buttati – altri si prendono la frutta o l’acqua, correndo rischi, e sono ancora gli stessi profughi a offrire parte del loro vitto.

In questi giorni i lavoratori stanno ragionando per indire un nuovo sciopero: vogliono essere ascoltati e sono stressati dal silenzio che li circonda. Dicono che lo Stato è sparito e che, lavorando con delle persone in difficoltà, si sentono ancora più schiacciati dalla responsabilità e provati psicologicamente. Il loro è un lavoro logorante che permetteva di portare a casa circa mille euro al mese, soldi che però mancano da troppo tempo. Resta in sospeso la domanda fondamentale: è la cooperativa che non paga i dipendenti, pur avendo le risorse, o è la Prefettura che non salda la cooperativa? Un interrogativo di cui anche a noi piacerebbe conoscere la risposta.