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Tortura, migranti, paradossi

Sergio Bontempeli - 12 Aprile 2015

impossibile-1La Corte di Strasburgo ci chiede di introdurre il reato di tortura. E nel disegno di legge all’esame delle Camere si parla anche di immigrazione. Ecco le novità

È, potremmo dire, la notizia della settimana: la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per il blitz alla Scuola Diaz di Genova, dopo le manifestazioni anti-G8 del 2001. E  ha obbligato il nostro paese a introdurre nel Codice Penale il reato di tortura [qui il testo della sentenza, in francese]. Così, la Camera dei Deputati ha dovuto tirar fuori dai cassetti un vecchio disegno di legge, approvato l’anno scorso al Senato e poi caduto nel dimenticatoio.

Tutto questo è noto, e non c’è bisogno di tornarci sopra. Meno noto è il fatto che nella proposta all’esame delle aule parlamentari – il cui primo firmatario è l’onorevole Luigi Manconi, da sempre sensibile a questi temi – compare anche un riferimento ai migranti: all’articolo 3 si legge infatti che è vietata l’espulsione quando vi siano «fondati motivi di ritenere che lo straniero rischi di essere sottoposto a tortura». Una clausola doverosa, senza la quale una legge di questo genere sarebbe monca e ipocrita.

Una norma già esistente, ma non applicata per anni
E però, a voler fare gli avvocati del diavolo, la norma pone anche qualche interrogativo. Anzitutto, già oggi l’articolo 19 del Testo Unico Immigrazione stabilisce il divieto di rinviare lo straniero «verso uno Stato in cui possa essere oggetto di persecuzione». Quella paroletta – «persecuzione» – è oggetto di infiniti dibattiti tra i giuristi, ma tutti concordano sul fatto, abbastanza ovvio, che la tortura sia di per sé una forma di persecuzione [vedi Manuale UNHCR 1979, punto 51; Scheda Asgi, pag. 13].

Il provvedimento all’esame della Camera, almeno da questo punto di vista, non aggiunge nulla di nuovo: anzi, enuncia una norma che esiste ormai da venticinque anni, perché già la precedente legge Martelli del 1990 conteneva, all’art. 7, una disposizione pressoché identica. In gergo tecnico si chiama «principio di non-refoulement», e compare anche nel diritto internazionale (ad esempio, nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati).

Intendiamoci. Ribadire un concetto così importante non è mai inutile: come dicevano i latini, repetita iuvant. Ben venga, quindi, una clausola che rende esplicito ciò che prima si poteva leggere solo tra le righe: però, nel frattempo, ci si potrebbe chiedere anche se e come (non) abbia funzionato la «vecchia versione», diciamo così. E imparare dagli errori del passato.

Per andare «al sodo», il punto dolente è che l’applicazione di questa norma è da sempre affidata ai questori: sono loro che devono stabilire se il rimpatrio dello straniero rischia di compromettere i suoi diritti fondamentali. E sono loro a rilasciare, al migrante eventualmente «graziato», un permesso di soggiorno «per motivi umanitari».

Il problema è che i questori sono competenti in materia di ordine pubblico, ma non di diritti umani. Sanno poco, o pochissimo, dei paesi di origine dei migranti, e non sono in grado di valutare le situazioni di pericolo cui possono andare incontro gli stranieri rimpatriati. Così, per molti anni questa norma è rimasta quasi del tutto inapplicata.

Le Commissioni
A cambiare le cose ci hanno pensato le famose «commissioni», quelle – per capirci – incaricate di valutare le domande di asilo politico. Quando non c’erano gli estremi per concedere lo status di rifugiato, ma era comunque necessario garantire una qualche forma di protezione, le commissioni hanno cominciato a «raccomandare» il rilascio di un permesso per motivi umanitari, in attuazione – per l’appunto – del principio di non-refoulement.

Anche qui, però, non sono mancati i problemi: le Questure consideravano queste «raccomandazioni» come dei semplici suggerimenti, e spesso decidevano di non rilasciare i permessi richiesti. Soltanto nel 2009 una sentenza della Cassazione ha stabilito, finalmente, che l’invito della Commissione deve considerarsi un ordine, e che quindi il documento di soggiorno deve essere concesso. Oggi, il principio sembra assodato (anche se non mancano casi di Questori “recalcitranti”, prontamente ripresi dai giudici…).

Insomma, ci sono voluti quasi venti anni perché il principio di non-refoulement venisse applicato. E ora che le Camere si apprestano a rafforzarlo, introducendo un riferimento esplicito alla tortura, forse sarebbe il caso di non ripetere gli errori del passato. Ad esempio, sarebbe necessario non delegare la materia agli organi di polizia.

La tortura e gli «accordi con i paesi di transito»
Ma il problema è ancora più complesso, e investe in termini più generali le politiche migratorie del nostro paese. Solo un mese fa, il Ministro Alfano ha proposto di istituire dei campi di accoglienza nelle cosiddette aree di transito. L’idea è quella di ospitare temporaneamente i profughi in paesi come la Tunisia, il Sudan o l’Egitto: qui, esaminare le domande di asilo rivolte alla UE, e trasportare in Europa solo chi ha diritto allo status di rifugiato.

Il rischio è evidente, ed è stato ben spiegato, ad esempio, da un esperto della materia come Fulvio Vassallo Paleologo: dietro la maschera degli «accordi con i paesi di transito» si nascondono spesso dei veri e propri respingimenti collettivi di rifugiati. L’Europa, insomma, non vuole i profughi, e cerca di trattenerli prima che arrivino…

Per restare al nostro tema, molti «paesi di transito» praticano comunemente la tortura, come documenta l’ultimo rapporto di Amnesty International. Predisporre luoghi di accoglienza in paesi che non forniscono garanzie sul rispetto dei diritti umani significa esporre i profughi, almeno potenzialmente, a trattamenti inumani e degradanti. Certo, non c’è nessun automatismo: il fatto che un paese come l’Egitto, ad esempio, abbia praticato e pratichi violenze contro gli attivisti dei Fratelli Musulmani non significa per forza che la polizia egiziana torturerà anche i migranti.

E tuttavia, resta una contraddizione di fondo: mentre si approva una legge contro la tortura, si fanno accordi con paesi che la praticano diffusamente. In nome, magari, del «contrasto all’immigrazione clandestina». E allora, non sarebbe il caso di cambiare le politiche migratorie italiane ed europee, mentre si discute del reato di tortura?

Una ferita ai diritti umani: la detenzione amministrativa
Infine, un ultimo cenno merita il tema della detenzione amministrativa: a partire dal 1998, l’Italia si è dotata di Centri di Identificazione ed Espulsione per «trattenere» gli stranieri irregolari in attesa di rimpatrio. Si tratta di luoghi dove sono di fatto detenute persone che non hanno compiuto alcun reato: per questo, molti giuristi considerano anti-costituzionale l’esistenza stessa dei «centri».

Uno spazio di sospensione del diritto produce inevitabilmente violenze e abusi: da più di quindici anni assistiamo a continue e ripetute denunce sulle condizioni degli immigrati nei CIE. E sono moltissimi i casi di trattamenti inumani e degradanti, qualificabili come vera e propria «tortura». L’episodio più noto – ma non il solo – è quello delle «docce antiscabbia» cui vennero sottoposti (correva l’anno 2013) i migranti nel centro di Lampedusa.

Anche qui, bisogna intendersi: la detenzione amministrativa, per quanto odiosa, non è di per sé una forma di tortura. E tuttavia, un luogo dove sono sospesi i diritti fondamentali è anche, fatalmente, uno spazio dove possono verificarsi abusi molto gravi. Non sarebbe allora il caso di rivedere le cosiddette «politiche di contrasto all’immigrazione clandestina»?

Sappiamo, d’altra parte, che i CIE non servono allo scopo dichiarato, cioè non riescono davvero ad allontanare i migranti «indesiderati». E sappiamo anche che, negli ultimi tempi, gli stranieri trattenuti sono considerevolmente diminuiti (ne abbiamo parlato su questo stesso giornale). La chiusura definitiva dei «centri», da questo punto di vista, non rappresenterebbe un evento così traumatico per le nostre politiche migratorie.

Insomma, per farla breve: è sacrosanto introdurre il reato di tortura, ed è altrettanto doveroso vietare l’espulsione dei migranti che potrebbero subire violenze gravi in caso di rimpatrio. E tuttavia, se vogliamo davvero mettere al bando la tortura, i passi da fare sono più ampi e complessi…

Sergio Bontempelli

Leggi anche: disegno di legge sul reato di tortura, approfondimenti dal sito della Camera

Si ringrazia Stefano Galieni per i preziosi suggerimenti