Quattro anni fa è arrivata dalla Siria. Oggi, con la sua associazione LiberamenteConsapevoli, promuove nelle scuole una visione inclusiva della società e l’educazione civica
stefano galieni
Yvan Sagnet e lo scandalo dello sfruttamento dei braccianti protagonisti dell’ultimo film di Milo Rau. Cronaca, cinema e impegno sociale si incontrano sullo sfondo di Matera 2019
Garantire la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati. Impedire che giovani venuti al mondo nel nostro Paese, cresciuti accanto a noi e con noi, siano considerati stranieri, magari da espellere se non hanno il permesso di soggiorno. Era questa la sfida lanciata dalla campagna L’Italia sono anch’io, concretizzatasi in due proposte di legge di iniziativa popolare, a loro volta sostenute da 100mile firme raccolte ai gazebo e ai banchetti sparsi in tutta la penisola. Sono passati tre anni da quando la campagna ha portato al Parlamento i testi che aveva elaborato. Adesso, finalmente, il 29 luglio è stata depositata, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, una proposta di legge di riforma della cittadinanza, prima firmataria la parlamentare Pd Marilena Fabbri. Le novità ci sono e sono sostanziali [qui il testo, confrontato con le norme attuali], anche se si registra un evidente passo indietro rispetto a L’Italia sono anch’io. Vediamo meglio.
Riformare la cittadinanza: la posta in gioco dei minori
Prima di entrare nel merito, vediamo quali sono i nodi che una riforma della cittadinanza deve, o dovrebbe, affrontare. La prima questione – la più sentita – riguarda appunto i bambini nati in Italia da genitori immigrati. Con la normativa attuale, questi ragazzi restano stranieri fino alla maggiore età: poi, compiuti i diciotto anni, possono chiedere la cittadinanza, ma devono dimostrare la residenza legale ininterrotta dalla nascita.
Si tratta di requisiti estremamente rigidi. Del resto, la legge in vigore risale al 1992, e all’epoca non si parlava di bambini “stranieri” nati in Italia: l’immigrazione era ancora una faccenda di giovani adulti. Oggi i tempi sono cambiati, i migranti si sono stabilizzati, hanno portato le famiglie e hanno fatto figli. E come sempre accade quando cambia la realtà attorno a noi, la legge ha – avrebbe – bisogno di un adeguamento ai tempi nuovi.
Con le procedure attuali, un minore nato in Italia resta nel limbo per tutta l’adolescenza, ed è costretto a rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno: una vera e propria umiliazione, per ragazzi che si sentono a pieno titolo italiani. Il requisito della residenza legale, che deve essere ininterrotta per diciotto lunghissimi anni, rappresenta poi una vera e propria forca caudina: basta che la famiglia abbia perso per un breve periodo il permesso di soggiorno, o che per un qualsiasi motivo sia stata cancellata dall’anagrafe, che la possibilità di diventare italiano sfuma.
Per la verità, il problema della residenza legale era stato parzialmente mitigato dal “decreto del fare” varato nell’Estate 2013: grazie alle nuove norme, chi ha perso la residenza per brevi periodi può comunque diventare cittadino italiano se dimostra di essere stato presente in Italia senza interruzioni (ad esempio mostrando certificati di frequenza scolastica). Un po’ poco, ma sempre meglio di nulla.
La questione della naturalizzazione
Il secondo problema da affrontare riguarda la cosiddetta “naturalizzazione”, cioè la procedura con cui uno straniero diventa cittadino, o perché residente nel nostro paese da un certo numero di anni, o perché sposato con un/a italiano/a. Le polemiche più accese riguardano la naturalizzazione “per residenza”, che si ottiene dopo dieci anni di registrazione all’Anagrafe: un periodo lunghissimo, se lo si paragona ai cinque anni richiesti dalla Francia o dal Regno Unito, o agli otto della Germania [si veda il dossier della Camera dei Deputati sui paesi UE].
Tra l’altro, in questo caso non valgono le agevolazioni del “decreto del fare”: quindi, chi ha perso la residenza per brevi periodi non può dimostrare in altri modi di esser stato in Italia. In questo caso, certificati scolastici o altre “prove” non vengono prese in considerazione, perché la norma del 2013 si riferisce solo ai bambini nati in Italia (benché una inascoltata circolare del Viminale, nell’ormai lontano 2007, avesse provato ad “alleggerire” il criterio della residenza legale).
Una cittadinanza “gentilmente concessa”
Sulla naturalizzazione, peraltro, grava un altro problema: la legge non prevede un vero e proprio diritto alla cittadinanza, ma parla di “concessione”. Il problema non è di forma, ma di sostanza. Perché se si parla di “concessione”, il Ministero può negarla senza tante spiegazioni: è un procedimento “discrezionale”, dicono i funzionari, e quindi l’amministrazione decide in piena autonomia. Così, solo per fare qualche esempio, la cittadinanza è stata negata a persone di fede musulmana, e il Viminale ha introdotto, con la circolare del 2007 già citata, dei criteri di reddito del tutto assenti nella legge (per diventare italiani bisogna essere “abbastanza ricchi”…).
Sulla naturalizzazione, nessuna novità…
Il disegno di legge attualmente all’esame delle Camere interviene solo sulla questione dei minori nati in Italia. La naturalizzazione non viene praticamente toccata: resterà dunque un provvedimento concessorio – octroyée, come le Costituzioni ottocentesche – e continuerà a riguardare stranieri residenti da almeno dieci anni (che diventano cinque per i rifugiati e quattro per i comunitari). Non viene nemmeno recepita la modesta proposta di portare il termine a otto anni, adeguando la norma italiana almeno agli standard tedeschi (tra i più restrittivi del Continente).
L’unica, piccola novità riguarda il criterio della residenza ininterrotta: il disegno di legge introduce infatti le agevolazioni a suo tempo previste dal “decreto del fare”, e consente dunque di rimediare a eventuali periodi di interruzione della residenza. Una ben magra consolazione, verrebbe da dire…
Jus soli…
Ben più sostanziose sono le novità in materia di bambini nati in Italia: questi diventano cittadini, senza attendere il diciottesimo anno di età, se al momento della nascita uno dei genitori è residente da almeno cinque anni. Se il genitore è nato in Italia, basta un solo anno di residenza.
Certo, la proposta de L’Italia sono anch’io era assai più coraggiosa, perché chiedeva al genitore un solo anno di residenza prima della nascita. Ma all’atto pratico le differenze potrebbero non essere così rilevanti: l’ISTAT ci dice che più della metà dei cittadini stranieri è in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo, un documento che si rilascia – per l’appunto – dopo cinque anni di presenza legale in Italia. E tra coloro che hanno permessi di soggiorno “ordinari”, vi sono moltissimi lungosoggiornanti, che però non hanno i requisiti di reddito per ottenere il documento “di lungo periodo”.
A conti fatti, dunque, sono moltissimi i migranti che abitano in Italia da più di cinque anni: se approvato, il disegno di legge potrebbe avere effetti positivi non trascurabili, trasformando in cittadini decine di migliaia di ragazzi nati in Italia.
… e jus culturae
L’altra novità è il riconoscimento della cittadinanza ai minori che, nati in Italia o arrivati sul territorio prima dei dodici anni, hanno frequentato regolarmente la scuola per almeno un quinquennio. Si tratta del cosiddetto jus culturae, una norma approvata in nome di un discutibile principio “assimilazionista” (del tipo «è italiano chi acquisisce la nostra cultura attraverso la scuola»).
Il principio è appunto discutibile – almeno dal nostro punto di vista – perché allude a una “cultura italiana” che esiste solo nelle fantasie dei politici razzisti: le culture diffuse nel nostro paese sono molteplici, variegate e plurali, e non tutte si apprendono a scuola. Eppure, se non vogliamo perderci nella filosofia, bisogna riconoscere che anche questa norma può consentire l’acquisizione della cittadinanza a migliaia di bambini. Perché tutti i minori dovrebbero frequentare la scuola, ed è dunque facile arrivare alla conclusione di un ciclo di studi della durata di cinque anni.
Come si vede da questa piccola ricostruzione, il disegno di legge presenta luci ed ombre. Ci sono novità significative, e silenzi altrettanto rilevanti. Vedremo cosa accadrà, nei prossimi mesi, nel dibattito parlamentare.
Sergio Bontempelli
Leggi anche: quadro sinottico del disegno di legge sulla cittadinanza, confrontato con la normativa attuale
E’ già iniziata in Ungheria la costruzione del muro anti-migranti lungo la frontiera con la Serbia, per ‘difendere’ il paese (e implicitamente anche la Fortezza Europa) dal flusso sempre più consistente di migranti che da Siria, Pakistan, Afghanistan, Eritrea, Somalia, attraversano i Balcani per raggiungere l’Europa. Un percorso lungo mesi, in genere più economico del viaggio via mare ma a volte altrettanto mortale, sebbene raramente i morti lungo la Balkan Route facciano notizia. Lo scorso 20 luglio, un migrante è morto annegato nel tentativo di sfuggire ad una pattuglia di polizia al confine tra Ungheria e Serbia. Ad aprile si diffuse in tutta Europa la notizia della morte di 14 migranti, investiti da un treno in Macedonia mentre camminavano verso la Serbia, anticamera dell’UE, dove centinaia di migranti si affidano ai passeurs per poter entrare in Ungheria
Recentemente, Amnesty International ha pubblicato un dettagliato report sulle violazioni dei diritti umani subite dai migranti lungo la Balkan Route, percorso lapidariamente definito ‘certainly not safe‘. Oltre ai respingimenti e alle detenzioni arbitrarie, costante del viaggio è la mancata accoglienza. L’Europa Orientale non solo è sempre più ostile alla presenza (transitoria) dei migranti, ma si dimostra totalmente incapace di allestire un sistema di accoglienza dignitoso. Per i migranti della Balkan Route, la porta d’Italia è il Friuli Venezia Giulia. A Gorizia, Udine e Trieste, vi è un flusso costante di profughi provenienti da Afghanistan e Pakistan, stremati dal viaggio e speranzosi di ricevere un’accoglienza spesso inesistente.
La sera del 20 giugno a Gorizia, a pochi passi dalla stazione ferroviaria, Adel, 67 anni, pakistano, si siede su una panchina, esausto. Soffre di mal di schiena, è solo ma è felice di essere arrivato a destinazione. Sa che Gorizia è sede di una delle Commissioni territoriali per l’asilo, sa che in zona esiste un CARA, vuole raggiungere l’Ufficio Immigrazione dove presentare la sua domanda d’asilo e poter finalmente avere un letto in cui riposarsi. Non sa invece che come lui quella sera a Gorizia ci sono un centinaio di migranti che da giorni, alcuni da settimane, dormono nel parco cittadino, in attesa di entrare nel sistema d’accoglienza.
Di Adel e delle altre decine di migranti che ogni settimana arrivano in Regione, non sono le istituzioni a prendersi immediatamente cura. La gestione dell’accoglienza continua a essere emergenziale: sono stati aperti dei CAS, a Udine è attiva una tendopoli, gli spazi dell’ex CIE di Gradisca (Go) sono stati adibiti a CARA: non basta, costantemente decine di richiedenti asilo (a volte anche centinaia) restano in strada. Così a Gorizia, da mesi è un instancabile gruppo di cittadini, affiancato dalla Caritas, a garantire ogni sera ai migranti rimasti fuori convenzione un pasto caldo e coperte per proteggersi dal freddo. Ai casi più vulnerabili si cerca di trovare una sistemazione, spesso accogliendo le persone nelle case private: e infatti quella sera a Gorizia, Adel non è rimasto a dormire in strada.
A Udine, l’associazione Ospiti in Arrivo è il punto di riferimento non solo per i richiedenti asilo senza dimora, ma anche per quelli attualmente sistemati nella Tendopoli presso la Caserma Cavarzerani, gestita dalla CRI. Chi è fuori accoglienza può contare ogni sera su pasti caldi e coperte. Per tutti, accolti e non, ci sono le lezioni di italiano organizzate al parco Moretti, un modo per conoscersi e sentirsi parte di una comunità, fattore cruciale per chi da mesi è lontano da casa. Tra la frustrazione per la passività istituzionale, il razzismo populista veicolato dai media, i provvedimenti ostili dei Sindaci (a Gorizia è stata emanata un’apposita ordinanza anti-bivacco contro i profughi), in questi mesi gli abitanti solidali di Gorizia e Udine hanno silenziosamente dimostrato che l’Europa dei muri ha nei suoi cittadini il suo nemico più grande.
Gli altri paesi attraversati dalla Balkan Route non sono da meno. A Budapest e Szeged , in Ungheria, i cittadini si sono organizzati in gruppi più o meno informali per garantire alle centinaia di migranti accampati nei parchi cibo, vestiti, ma soprattutto la possibilità di sentirsi accolti in un paese noto per le sue politiche respingenti. Il 14 luglio, una colorata manifestazione ha attraversato le vie del centro di Budapest per dire ‘no’ al muro voluto dal premier Orban.
A Belgrado, nel parco davanti alla stazione degli autobus, centinaia di migranti sono accampati in attesa di proseguire il proprio viaggio. Come denuncia No Border Serbia , la loro presenza viene osteggiata dalle autorità: la polizia, spesso con l’uso della forza, cerca di mantenere sgombra l’area, perché nessuno possa vedere che persino le famiglie vengono lasciate per strada. Da circa due mesi, ogni sabato, No Border Serbia organizza ‘Caj a ne granice!’ (Tè, non frontiere!), iniziativa solidale con i migranti accampati al parco, durante la quale vengono raccolti i generi di prima necessita’ donati dai belgradesi. Sorseggiando il tè ci si conosce, si ascoltano i racconti di viaggio dei migranti, delle violenze subite dalle polizie di diversi stati.
Se le risposte spontanee non possono certo essere l’unica soluzione ad una questione umanitaria, esse hanno il merito di proporre e raccontare un’altra Europa. A Belgrado, a Budapest, a Gorizia e a Udine, di fronte alla lampante inefficienza delle istituzioni, che in molti casi è aperta ostilità, la risposta umana di movimenti, associazioni e semplici cittadini è creare spazi di socialità, solidarietà, incontro. Laddove la propaganda anti-migranti è istituzionale (come nel caso ungherese) o è legittimata a partecipare al dibattito politico (come nel caso della Lega Nord in Italia), le iniziative dal basso raccontano un continente diverso, che ha disperatamente bisogno di ponti, non di muri.
Galadriel (Gala) Ravelli
Chiamiamolo Mouhamadou. L’ho conosciuto il 18 luglio a Parigi. È riuscito a passare la frontiera franco-italiana e a sfuggire ai controlli della polizia, ma ha rischiato per giorni una morte feroce.
Con lui ci sono anche attivisti italiani e francesi venuti da Ventimiglia, per un appello a tre giorni di mobilitazione. Chiedono azioni sparse nella città, in solidarietà ai migranti sugli scogli e contro la nozione di frontiera.
Ci siamo conosciuti sull’ Esplanade Nathalie Serraute, più conosciuta con il nome di halle Pajol. E’ un’antica struttura industriale del XIX secolo, trasformata dal 2007 in una centrale solare per la produzione di energia pulita, che oggi ospita un grande complesso composto da una biblioteca, uffici, negozi, un parco, l’ostello più grande della città. E tanti piccoli bar, con tavoli all’aperto che avrebbero dovuto riempire, per tutta l’estate, questa piazza del diciottesimo arrondissement.
La halle Pajol è uno fra gli altri dei diversi campi ricreatisi (la stazione di Austerlitz, la Porta di Saint-Ouen, lo Square Jessaint, ecc.) dopo l’evacuazione della Chapelle, il grande accampamento sotto il ponte della metro, che ha ospitato più di 400 persone per 9 mesi, fino allo sgombero del 2 giugno.
Ci sono state almeno 3 espulsioni in meno di una settimana. Due giorni dopo lo sgombero della Chapelle, le squadre antisommossa francesi sono intervenute, con una violenza testimoniata anche in web, nella chiesa Saint Bernard e due giorni dopo alla Rue Pajol.
Un altro campo si è riformato nei vicini giardini d’Eolo e molti cittadini si sono precipitati a portare vestiti, cibo e a offrire notti di ospitalità e docce nelle proprie case. Hanno organizzato perfino turni di veglie notturne, in seguito a un attacco di un groppuscolo neo-nazista.
Vivo a Parigi da sette anni e non avevo mai visto tanta umanità, tante persone rinunciare alla consueta distanza senza paura della scabbia, della stanchezza e delle forze dell’ordine. Durante lo sgombero di rue Pajol un abitante del quartiere ha nascosto nel suo appartamento 18 persone, per tutta la notte. Si è creata una vita collettiva in cui chi poteva ha condiviso le proprie competenze mediche e legislative. Sono intervenute associazioni come Medicins du Monde e ATMF (Association de Travailleurs Maghrebins de France), c’è stato chi ha garantito i pasti e chi i corsi di francese nel parco, in cambio di corsi di arabo. E poi si sono organizzate feste, concerti e manifestazioni, per rifiutare l’invisibilità a cui condanna l’esistenza in un campo.
Durante una delle interminabili assemblee generali un migrante ha concluso così un suo discorso: «…e poi… la verità è che noi non siamo dei rifugiati, non siamo neanche dei migranti, noi siamo degli erranti». E’ difficile che una parola mi buchi cosi’, soprattutto se pronunciata in francese, che non è la mia lingua materna. Ma la radice è la stessa nelle due lingue ed errare è proprio «andare vagando senza sapere dove, senza consiglio, come brancolando fra le tenebre».
In questo contesto sono nati forti legami di amicizia. Eppure ancora non conosco la professione di molti dei soutiens (sostenitori, termine politicamente più connotato di quello di volontario) con i quali ho passato tutto il mio tempo da due mesi a questa parte. L’ostentazione di beni materiali e simbolici (conoscenze, titoli di studio, cariche professionali) è stata annullata dal campo e quest’esperienza sta cambiando anche noi, i più o meno integrati nella società.
Quando incontro Mouhamadou a Pajol c’è già la consapevolezza di far parte di un movimento sociale, che avanza rivendicazioni e che ha un proprio nome: La Chapelle en lutte. Mi racconta il suo viaggio, i giorni passati sugli scogli a Ventimiglia. Mi parla anche della Croce Rossa, a cui era stata affidata la gestione dell’emergenza e che aveva sottoposto tutti gli ospiti del centro di accoglienza a una visita medica e distribuito un braccialetto verde per avere accesso alle cure. A ognuno di questi braccialetti corrisponde tuttora un numero, che a sua volta corrisponde a un nome, a un cognome, e a una data di nascita, stilati in una lista a parte. Lui ed altri migranti si sono strappati il braccialetto e hanno rifiutato gli aiuti. «Noi vogliamo attraversare la frontiera ed essere aiutati a farlo, non vogliamo mangiare e dormire. La Croce Rossa collabora con il governo italiano e con la polizia. Attorno al centro di accoglienza è pieno di mezzi della polizia che ci riportano in Italia dalla Francia. Quando riconoscono qualcuno che ha fatto più volte il tentativo di passare la frontiera, lo allontanano in elicottero, nel sud Italia, per scoraggiarlo».
Gli ho chiesto come avessero vissuto in quei giorni, sotto il ramadan. Mi risponde: «Grazie all’aiuto dei cittadini che, soprattutto da Nizza, venivano a portarci pasti preparati da casa. Dei musulmani poi hanno organizzato una raccolta di cibo in una moschea, dopo aver visto le immagini alla televisione. Mi ha molto toccato questa solidarietà. Molti ci hanno acquistato dei telefoni, ce li hanno portati fino agli scogli per permetterci di chiamare a casa e rassicurare i nostri familiari»
Mi ha raccontato, poi, della polizia tedesca e di come lo avesse obbligato, a forza di botte, a lasciare le impronte in Germania. Ho seguito le sue parole con lucidità, fino al passaggio della froniera franco-italiana. Dove ho riceduto, come sull’errare di Moustafà, lo stesso buio di disperazione e forza vitale in cui oggi passa la storia.
Il 29 luglio i migranti di Pajol hanno subito un altro sgombero, stavolta violento solo dal punto di vista simbolico e morale. Sono arrivati 4 pullman garantendo, in posti diversi e lontani tra loro e da Parigi, proposte di vita inadeguate, al fine di disperderli. Una giostra per bambini il giorno dopo era cinicamente al centro della piazza. Qualcuno ha rifiutato ed ha preferito ritornare a Pajol, insieme ad altri migranti rimasti lì, e ai nuovi arrivati. Attualmente sono circa 200 e stanno occupando, tutti insieme, la scuola Guillaume Budé. Un edificio abbandonato nel XIX arrondissement. Domenica 2 agosto hanno organizzato una festa con gli abitanti del quartiere. Il braccio di ferro con le istituzioni continua, perché in gioco non ci sono solo i pasti, i tetti, o delle soluzioni elargite con lentezza, caso per caso. Ma il permettere a ciò che è legalmente possibile di coincidere con ciò che è eticamente accettabile.
Annalisa Romani
Da più di due anni Medici Volontari Italiani opera a Milano nei centri che il Comune ha destinato ai siriani in transito. Dal 2014 c’è un’unità mobile anche a Porta Venezia, dove l’utenza è per lo più eritrea. Rosamaria Vitale, che ha scritto diverse volte anche per Corriere delle Migrazioni, fa parte di questa associazione. E’ medico e psichiatra, ed è presente in loco almeno due pomeriggi a settimana. «Ho lavorato in Africa con diverse Ong e con i Padri Camilliani per programmi riguardanti la salute ma ho sempre mantenuto del tempo per il volontariato a Milano. Faccio parte dell’associazione Sos Erm (S.O.S. Emergenza Rifugiati Milano), il gruppo nato per l’assistenza ai profughi siriani, e collaboro con i volontari dell’associazione Cambio Passo, che fin dall’inizio si sono occupati principalmente dei profughi eritrei. Loro avevano bisogno di un medico, e sono andata».
Si è parlato tanto, nelle scorse settimane, di allarme scabbia e di altre malattie. Cosa pensa di questi ricorrenti allarmi sanitari?
«Penso che in realtà non c’è niente di nuovo e neanche di particolarmente preoccupante. C’è però tanta confusione. L’impetigine, che ha natura batterica, è stata scambiata per scabbia. Febbri normali sono diventate malaria. La stampa ha fatto un pessimo servizio, ma la responsabilità, in alcuni casi, è stata anche dei medici che non sono stati capaci di formulare le giuste diagnosi. Non è facile. Ci sono malattie con cui certi colleghi non hanno mai avuto a che fare».
Ci sono anche malattie psichiche, determinate o aggravate dai traumi della guerra e del viaggio. Voi come le affrontate? «Quello del disagio psichico è un ambito assai complicato. MEDU, l’associazione Medici per i diritti umani, ha pubblicato un report in cui spiega, tra l’altro, che se si potesse lavorare in gruppi più piccoli lo si potrebbe affrontare in modo molto più adeguato. Ma questo non è facile. Per quanto riguarda siriani ed eritrei va detto anche che in gneere si fermano davvero per pochi giorni, a volte solo per qualche ora. Ci si concentra sui problemi fisici più immediati ed evidenti. Non c’è il tempo per approfondire la parte psicologica.».
E per gli altri? «Per gli altri sarebbe doveroso farlo. Io personalmente, dalle mie esperienze sul campo, ho ricavato un manuale che è destinato agli operatori e che si intitola Accogliere il migrante: Tecniche di psicologia transculturale in situazioni di emergenza. Ho lavorato in un centro dove erano stati accolti 400 migranti, nel 2011, provenienti dal Nord Africa. Li ho conosciuti e seguiti tutti, uno ad uno, ho fatto uno screening psicologico che mi ha permesso di evidenziare i casi di fragilità psichica e di seguirli nel tempo.
I media danno in genere spazio alle dichiarazioni dei politici. Molto meno a quelle degli operatori (mediatori, volontari, medici) dell’accoglienza. Con quali conseguenze?
«Nefaste. Ma non per noi, per i migranti. Dietro ad ogni dichiarazione, da qualsiasi parte venga, c’è solo un pensiero politico: attaccare l’avversario, ottenere i favori della gente, strumentalizzare i migranti, persino le malattie, per ergersi a paladini dei diritti».
Recentemente è stata in missione in Sud Sudan. Come è andata?
«Inizialmente ho avuto parecchi timori. Quando ho dovuto firmare la polizza sulla vita prevista dell’ingaggio, e specificare chi sarebbero stati i miei eredi in caso di morte, ero ancora più inquieta. Ma il progetto cui andavo incontro era molto bello. Il tema era quello di un’analisi sui problemi psichiatrici delle persone che vivono nei campi profughi. E’ stata un’esperienza penetrante, emozionante, che mi ha permesso di vedere con i miei occhi da cosa fuggono le persone che vengono da lì fino alle sponde del Mediterraneo. Certo non si possono utilizzare i parametri occidentali, ma si deve entrare, psicologicamente, in quel mondo. Per esempio l’OMS dice che il 50% di chi vive in quei campi è depresso, ed il 36% soffre di disturbi post traumatici. Chi resta di sano? Il 14% . Dati assurdi, secondo me. Che siano depressi mi sembra ovvio, e che qualcuno sia rimasto traumatizzato anche, ma le vere patologie mentali si sono evidenziate solo nel 20% delle persone».
Chiara Zanini
Accadeva quasi 15 anni fa, nel gennaio del 2001. Pochi giorni prima Ventimiglia era stata flagellata da un’alluvione, c’erano state vittime e danni ma allora si parlava anche di altro. Le voci raccontavano di un mondo sommerso, dei centinaia di kurdi, soprattutto turchi e iracheni, che tentavano di attraversare la frontiera per poi arrivare in Germania, dove la comunità è sempre stata molto forte e compatta. Arrivavano dagli sbarchi in Puglia, raggiungevano in treno l’ultimo avamposto italiano e si fermavano per alcuni giorni: i più poveri nei giardini della stazione, chi aveva qualche lira in più (non c’erano ancora gli euro) in alberghetti o in stanze prese in affitto. Il tempo di rifocillarsi, di prendere contatto con qualche passeur e poi via, verso la vera libertà che già allora non era in Italia. Con una collega e amica, Antonella Patete, partimmo per andare a vedere di persona, con tanta inesperienza e poche certezze, ma soprattutto la voglia di scoprire e di capire. Restammo quasi una settimana: parlammo con tutti, kurdi e autoctoni, passeur e taxisti, agenti di polizia italiani e francesi, albergatori e negozianti. Ne venne fuori un reportage che quasi due anni dopo, insieme ad altri simili realizzati nei luoghi di arrivo o di fuga dei migranti, prese la forma di un libro, Frontiera Italia (Città Aperta Edizioni), ormai fuori commercio.
A rileggerlo oggi il presente si mescola col passato. Sono mutati i contesti internazionali, è peggiorata la fase economica, si sono imbarbariti i rapporti sociali, ma quel luogo di frontiera resta un pezzo di storia ancora capace di evocare antichi fantasmi, non solo per i tragici eventi del presente ma per il carico di passato che porta con sé. Il Regno d’Italia nasce, infatti, con il plebiscito attraverso cui i cittadini di Nizza e di Mentone (a soli 6 km da Ventimiglia) decidono di essere annesse alla Francia: diventeranno Nice e Menton e resteranno città di frontiera. L’Italia è allora un Paese povero e dai valichi rivieraschi e di montagna nasce la fama dei passeur, descritti in maniera romantica dallo scrittore Francesco Biamonti, ma in realtà contrabbandieri di persone e di merci. In un secolo da quel confine passò di tutto: soldi, armi, sale, ragazze da mandare a prostituirsi nei bordelli francesi e mendicanti figli di famiglie troppo povere, rei in fuga, anarchici, sobillatori, socialisti e poi antifascisti, fino alla seconda guerra mondiale e alla momentanea riannessione all’Italia mussoliniana. Durò poco e il traffico riprese imperterrito. Passare via terra era difficile, si veniva facilmente individuati e respinti. Si provava per la via degli scogli, i cosiddetti Balzi rossi, ma il rischio di venire intercettati o, peggio, di finire in mare era alto. Oppure si provavano i passi di montagna. Uno dei più famosi, passando per un albergo chiamato Le Calandre, divenne il famigerato Passo della Morte. Salendo da Ventimiglia, ovviamente di notte, ci si inerpicava per sentieri sempre più ripidi, sempre più insicuri. Ma si arrivava ad un punto, pochi metri di strada, in cui le luci dall’Italia non si vedevano più mentre quelle della cittadina francese illuminavano la roccia. C’era (c’è ancora) uno spazio ristretto in cui, grazie a questo gioco di luci, diviene impossibile vedere il sentiero. In tanti sono precipitati fra le rocce e tanti altri non sono mai stati recuperati. Morti poco importanti da piangere. Accadeva con gli italiani e accadeva, all’inizio degli anni 2000, con i kurdi e i migranti in generale.
Quando andammo su quel confine erano cinque le strade battute: quella del confine di San Luigi, da attraversare a piedi, col rischio di essere intercettati dalle polizie dei due stati se si aveva la pelle più scura o l’aria di chi ha dormito di notte all’addiaccio. Oppure si poteva andare con i passeur, gli scafisti leggeri, che portavano persone in taxi, in furgone, con un’automobile privata. Se al confine il mezzo veniva fermato e perquisito scattava il sequestro, la condanna del guidatore, il respingimento dei passeggeri. Si pagavano 50 mila lire a persona circa, per 6 km. Se si voleva tentare di raggiungere Nizza, città cosmopolita in cui più era facile mimetizzarsi, i chilometri diventavano 60. I rischi di essere fermati aumentavano e, ovviamente, i costi anche.
Un’altra strada possibile era la via ferroviaria, anche questa con due alternative. La prima consisteva nell’eludere i controlli della polizia a Ventimiglia, salire facendo il biglietto e sperare nella scarsità dei controlli lungo il percorso. Se si veniva trovati si perdevano solo i soldi del biglietto, si tornava a Ventimiglia, si dormiva in stazione e poi si riprovava. Si tiravano i dadi, come nel gioco dell’oca. Poi c’era anche chi i dadi li tirava da più in alto, mettendo a rischio la propria vita: erano quelli che provavano l’antica rotta dei Balzi rossi, sugli scogli, dopo aver raggiunto il mare alla foce del fiume Roia. Quelli che si incamminavano lungo la ferrovia, passando nelle gallerie e sperando di non essere investiti da un treno merci (tutti conoscevano gli orari dei convogli con passeggeri) e quelli che ancora provavano il Passo della Morte, con gli stessi rischi dei decenni passati. A Mentone, poi, i controlli erano certosini. La bella e luminosa cittadina ha sempre avuto amministrazioni che non tolleravano l’arrivo degli stranieri, italiani o kurdi che fossero, così la caccia all’uomo era frequente. E se venivi preso tornavi indietro, per poi rilanciare i dadi. È andata avanti così per molti anni ma il numero dei fuggitivi diminuiva, si cercavano altre rotte e anche i passeur avevano perso lavoro.
Una nuova impennata che riportò alla ribalta la cittadina ligure, si è avuta nei primi mesi del 2011. Quelle che allora venivano chiamate “Primavere Arabe” affollarono dapprima Lampedusa, poi i centri di raccolta e di “detenzione camuffata” in buona parte del Paese, da Trapani a Manduria, da Santa Maria Capua Vetere a Palazzo San Gervasio, fino a Crotone, Civitavecchia, Elmas. Caserme e strutture improvvisate, concentrate in alcune regioni, fino a quando l’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni diede due disposizioni: la ripartizione dei fuggitivi in ogni regione e l’erogazione di permessi di protezione umanitaria temporanea che, secondo il Ministro, avrebbero dovuto permettere alle persone di recarsi nei Paesi europei in cui ognuno aveva già legami. La Protezione Civile in quel periodo si attivò per facilitare il transito e centinaia, forse migliaia di biglietti ferroviari, vennero offerti a chi voleva andare via.
Roma, Stazione Termini, binario 21. I volontari prendevano i nomi, davano la lista ai funzionari del Comune o della Prefettura e in breve arrivavano i preziosi titoli di viaggio per un treno che avrebbe portato ognuno verso il confine francese. All’inizio non ci furono problemi, poi il numero delle persone che giungevano in Francia superò una certa soglia di guardia e iniziarono i primi respingimenti. Alcuni di coloro che intanto erano arrivati già a Parigi – soprattutto giovani tunisini – vennero rimandati in Italia senza tanti complimenti, in base al Regolamento di Dublino e a una interpretazione secondo cui i permessi rilasciati in Italia avevano valore solo in tale Paese. Ci fu un lungo braccio di ferro diplomatico, amplificato mediaticamente per fare in modo che, intanto, iniziassero rimpatri verso la Tunisia e che si evitassero concentrazioni di persone tali da imbarazzare entrambi i governi.
Con la fine delle Primavere Ventimiglia tornò nel dimenticatoio. Ma da almeno un anno non è più così. È tornata ad essere una frontiera ambita, verso la Francia vissuta come Paese di transito. Sono tornati a lavorare i passeur, con tariffe anche ridotte rispetto al passato. Poi c’è stato un crescendo su cui hanno influito, come al solito, le scadenze elettorali. La Francia ha ricominciato a fermare, identificare e respingere persone, soprattutto dall’Africa Sub-Sahariana. Il mese scorso si è trattato di almeno un migliaio di uomini e donne: verso i minori c’era maggiore attenzione ma ora non si risparmia nessuno. Oggi, come da ormai oltre 150 anni, quello sprazzo di terra compreso fra montagna e mare torna a essere luogo di silenzioso conflitto moderno, fra chi ha diritto a muoversi e chi è condannato a essere fermato.
Stefano Galieni
Per fortuna il Sindaco di Pescara ci ha ripensato. O forse il dietro front è dovuto più che altro alla mobilitazione delle forze sociali del territorio, percorse da un’ondata di sdegno da quando – dopo un sopralluogo di Polizia e Polfer dello scorso 11 luglio – il Primo cittadino del capoluogo abruzzese (in quota Partito Democratico) ha firmato un’ordinanza che disponeva lo sgombero dello storico mercatino della comunità senegalese, messo in piedi davanti alla stazione. Sul filo di lana il Sindaco ha cambiato idea, rinviando di un mese l’allontanamento dei commercianti, e impegnandosi anche a trovare una nuova collocazione per le bancarelle. Ma per arrivare a questo risultato c’è voluto soprattutto l’impegno di alcune forze politiche e sociali di zona, a partire da Rifondazione Comunista, che nei giorni scorsi ha lanciato un appello per mettere in campo iniziative di solidarietà verso i senegalesi.
Inizialmente il provvedimento non prevedeva alcuna soluzione alternativa per i commercianti, che dal mercatino traggono una dignitosa forma di sussistenza. Nell’ordinanza – all’inizio passata sotto silenzio – si prospettava semplicemente “l’immediato allontanamento di tutti i soggetti e la contestuale bonifica della zona”. Se necessario – si legge nel documento – le forze dell’ordine inviate dalla Prefettura avrebbero anche potuto impiegare la forza per procedere a uno sgombero coatto. Questo perché, nel sopralluogo dell’11 luglio, le forze di Polizia avevano rilevato: “una situazione pericolosa, con numerose bancarelle poste in sede fissa, tutte dotate di energia elettrica e collegate tra loro con allacci di fortuna e senza nessuna regola di sicurezza per gli impianti. Nell’area insiste una struttura prefabbricata adibita ad abitazione dove vengono cucinate vivande utilizzando bombe di gas, con costante pericolo”. Alla fine, mentre si convocava per sabato 7 agosto un incontro in Comune con la comunità senegalese, l’ordinanza 420, che definiva la data di esecuzione del provvedimento, era stata già approvata.
E pensare che la originaria disposizione del mercatino nei pressi della stazione ferroviaria era stata decisa proprio da un suo collega di partito del Sindaco. La precedente giunta aveva provato da una parte a tenere a bada i fautori di soluzioni drastiche, dall’altra a trovare un altro spazio in cui collocare quello che, per la città, è divenuto ormai anche un esempio di integrazione positiva. Non appena la notizia ha cominciato a circolare, il presidente della comunità senegalese Luna si era rivolto direttamente al sindaco, e si era detto dispiaciuto per il modo con cui era stato comunicato (da un giorno all’altro) lo sgombero dell’area in questione. Luna assicurava che non ci sarebbe stato bisogno della forza pubblica per lasciare la zona: «Se il giorno prima ci diranno di lasciare questo posto, lo faremo – aveva dichiarato – Ma non vogliamo essere strumentalizzati. La nostra è una comunità pacifica e cercheremo, comunque, di far valere in maniera civile le nostre ragioni. Speravamo in una maggiore concertazione anche perché, dal Comune, avevano parlato di una sede alternativa a questa». Non è la prima volta che si chiede di sgomberare questo mercato ma quando a proporlo furono, nel 2013, le organizzazioni di destra, si creò nel centro sinistra una forte solidarietà verso i senegalesi e vennero espresse forti parole di condanna per chi chiedeva l’intervento della forza pubblica. Oggi a Pescara governa proprio il centro sinistra e il sindaco, dopo aver ignorato per giorni e giorni l’emergenza reale del mare non più balneabile a causa di liquami di varia origine, ha ritenuto opportuno disporre lo “sgombero coattivo” del mercatino allo scopo unico di accrescere i propri consensi.
A Ventimiglia, al confine con la Francia, è accaduto e sta accadendo qualcosa di insopportabile, per la coscienza e per la politica. L’immagine che pubblichiamo si riferisce ai momenti, carichi di tensione, in cui le forze dell’ordine sono intervenute per sgomberare i profughi. Mentre prepariamo il prossimo Corriere delle Migrazioni, che in larghissima parte sarà dedicato ai profughi e alla morte del diritto d’asilo in Europa, vi proponiamo la testimonianza di Alessandra Ballerini, l’avvocata-attivista che scrive spesso per noi. Alessandra era a Ventimiglia.
«Manca all’appello ancora l’ultimo treno, quello delle 23, e i profughi in stazione a Ventimiglia sono già almeno 400. Sudanesi, etiopi, eritrei, ghanesi, profughi del Togo, del Mali e della Guinea, tutti approdati sulle nostre coste nei giorni scorsi. La nostra piccola Africa ligure.
Tra loro, numerose donne anche giovanissime, stremate, stese per terra con occhi e corpi quasi inermi. Bellissime, nonostante tutto. Le osservi e ti domandi quanto sarà costata loro, nelle notti di prigionia in Libia, la loro bellezza acerba e indifesa, la loro solitudine, la loro determinata fragilità.
Vagano nella piazza antistante la stazione anche tantissimi ragazzini, “minori stranieri non accompagnati”, come vengono definiti col linguaggio tecnico dei giuristi. E anche dei bimbi piccoli. Nessuna traccia dei venti minori afghani che lunedì scorso erano comparsi in stazione.
Mi avvicino all’uniforme che, tra le tante presenti, annoiate e distratte, mi sembra più affabile e attenta. Gli chiedo informazioni sulla situazione. Lui è gentile e preparato. Esclude che i colleghi francesi abbiano notificato qualsiasi sorta di atto ai profughi respinti di fatto molto più che di diritto, alla frontiera di Mentone. Non crede comunque che la gendarmerie abbia usato la forza contro i migranti, basta la minaccia esplicita del loro schieramento lungo la strada. Un confine di uomini, anzi di divise.
Mentre parla s’indigna. «Queste sono persone che chiedono asilo – mi dice mentre una bimba eritrea di neppure due anni gli gira intorno – e non clandestini, come vengono chiamati dai giornalisti».
Io sgrano gli occhi, sorpresa nei miei pregiudizi da un’analisi così precisa e, visti i tempi, affatto banale. Lui si accorge del mio stupore e immediatamente aggiunge: «io porto questa divisa per difendere la democrazia nel mio paese, per tutelare lo stato di diritto. Un po’ come lei che fa l’attivista». Io veramente mi ero presentata come avvocata consulente di diverse associazioni umanitarie, ma lui da bravo “sbirro”, mi ha subito calato la maschera.
Mi siedo. Sull’aiuola, insieme ai migranti. Scambiamo con loro pochissime parole. Sono troppo stanchi, non voglio sottoporli anche al mio, seppure benevolo, interrogatorio, che si sommerebbe a quelli più implacabili dei tantissimi giornalisti presenti e armati di microfoni e telecamere.
Serena, l’operatrice della Caritas, si siede accanto a me e mi presenta alcuni richienti asilo conosciuti nei giorni precedenti. Mi mostrano i segni della scabbia. All’inizio fa come una S bianca sul polso, mi spiegano, e ripenso immediatamente a una frase geniale scritta su fb come risposta dissacrante contro gli idioti allarmisti che urlano all’untore: “ho scritto t’amo sulla scabbia”.
E poi prude tra le dita, mi raccontano. Nulla di terribile o inguaribile. Basta una pillola o una pomata e passa in tre giorni.
Si potesse fare lo stesso con la scabbia ben peggiore e decisamente più contagiosa e resistente del razzismo!
Mi sposto lungo la linea di passaggio con la Francia per capire, ancora una volta, come i diritti si possano sospendere con il semplice uso della forza.
Il “confine” è presidiato dalla gendarmerie. I respingimenti sono sommari, collettivi e informali. Pare non vengano notificati atti nè fornite spiegazioni o tantomeno ascoltate istanze. Agli agenti francesi basta agitare il manganello e il respingimento è fatto. E non risparmia nessuno neppure donne incinte o minori. La croix rouge sta al di qua del confine, in suolo italico, come a dire che soccorsi in Francia non se ne danno perchè in Francia è di fatto vietato ai profughi posare il piede. E cosi una parte di loro si assiepa sugli scogli e aspetta. Che le cose cambino, che le guardie si distraggano. che i diritti vengano ristabiliti. Ma non succede. Da giorni non succede nulla.
E cosi i profughi fanno avanti e indietro tra la stazione e gli scogli/confine. Sei chilometri all’andata e sei al ritorno. A volte, come in queste ore domenicali, sotto l’acqua, spesso sotto il sole cocente. Di sera si torna in stazione a prendere il pasto distribuito dai volontari della caritas e dalla crocerossa e poi a dormire dentro la stazione o sul piazzale antistante.
A Ventimiglia infatti non è stato ancora allestito alcun rifugio sicuro, da poco sono state montate delle docce e ai pasti pensano i volontari. Nessuno pensa alla salute e neppure chiamando il 118 si è ottenuto l’intervento di personale sanitario. Domenica le autorità avrebbero dovuto decidere quale immobile destinare a rifugio di queste persone esposte, oggi, pure alle scorribande di xenofobi francesi e nostrani e a fragorosi acquazzoni, ma ancora non sembra essersi trovata un soluzione neppure provvisoria.
La stazione intanto è presidiata da un’indifferente polizia italiana e nessuno viene identificato nè condotto in commissariato per l’identificazione.
Chi offre loro ascolto, vestiti ,medicine e cibo non ha bisogno di prendere le impronte per sapere chi sono, a loro basta guardarli negli occhi.
E quegli occhi ogni ora che passa si moltiplicano: lunedi sera i profughi sono circa 600 e tra loro sempre più minori e almeno venti tra neonati e bambini piccoli; intanto fortunatamente in stazione hanno aumentato gli spazi a disposizione dei profughi.
I giornali più gentili li chiamano transitanti: in realtà non transitano, non vagano, non invadono e non contagiano, semplicemente si ostinano, seppure sempre più stanchi, a esistere e a resistere, nonostante le nostre procedure ottuse e ingiuste, come il regolamento Dublino, o crudeli e fallaci, come la mancata previsione dei canali umanitari, nonostante i nostri confini e le nostre paure (prima tra tutte quella di dover scoprire che a vivere in un paese in pace non c’è alcun diritto ma solo immeritata fortuna).
Non transitano, semmai vengono loro malgrado allontanti, trasferiti, respinti.
Come succede anche oggi, che è già martedi, con la nostra polizia che decide inopinatamente di trascinare a forza un gruppo di profughi presenti al confine, verso la stazione. Un’operazione violenta nella sua assoluta insensatezza e umiliante per chi la subisce come per chi la esegue.
In stazione intanto gli instancabili volontari tornano a distribuire cibo e consigli anche ai nuovi giunti tra i quali una dozzina di giovanissimi afghani.
Respinti ma decisamente non vinti.
Ecco si, sono giorni che cerco la parola esatta per descriverli, questi giovani esuli, scacciati da tutti, esclusi dai diritti che pure si dicono inviolabili e universali, esausti di fughe, soprusi e umiliazioni, li guardi negli occhi e la parola che sale alle labbra, è invincibili, come gli eroi.
Alessandra Ballerini
Yassine Rachick ha 22 anni, vive in Italia da 12 ma è nato in Marocco. Fino a ieri (e non è un modo di dire) non aveva ancora la cittadinanza italiana (che invece era stata ormai accordata ai suoi genitori e a i suoi fratelli). La aspettava e, tenendo conto dei tempi medi di questo processo, avrebbe potuto averla tra un paio d’anni. Ma Yassine è una promessa dell’atletica italiana. E senza cittadinanza non avrebbe potuto rappresentare il nostro paese agli Europei Under 23 che si disputano a luglio. Di fronte a una motivazione come questa, ecco allora che la burocrazia e le leggi cambiano passo. L’onorevole Khalid Chaouki lancia una petizione rivolta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella , che ha raccolto in poco tempo in rete oltre 21 mila firme, chiedendo di abbreviare tempi tanto ingiusti e penalizzanti. Mattarella risponde, interviene, firma. Yassine è italiano. Siamo felici per lui (e per lui tiferemo, a luglio). Siamo piuttosto costernati, però, per tutti gli altri, quelli che devono confrontarsi con tempi ugualmente ingiusti e penalizzanti ma non corrono così veloci da suscitare l’interesse del Capo dello Stato. Ricordiamo, in particolare, che il progetto di legge per riconoscere la cittadinanza a chi nasce e cresce in Italia (cfr la campagna L’Italia sono anch’io) era stato sostenuto da ben più di 21mila firme eppure, a distanza di cinque anni, è ancora in un limbo.
Yassine, per la cronaca, recentemente aveva ricevuto offerte da altri paesi Ue (è interessante notare come in Europa ci rimpalli i rifugiati ma ci si metta in competizione per procacciarsi l’immigrato atletico..). Lui ha rifiutato dicendo che l’italia, ossia il posto in cui è cresciuto e vivono i suoi famigliari, è il suo Paese.