Senghor e i confini. Andare al di là del limite verso una reale unità tra i popoli

L.M. - 2 Dicembre 2010
Dakar-clandò
La rubrica di Chiara Barison

DAKAR. Per mille motivi e mille bisogni differenti, gli uomini hanno sempre marcato il loro rapporto con lo spazio. Dalle capanne alle case, dai cancelli ai muri, dalle barriere naturali alle fortezze, dalle linee immaginarie al filo spinato, dal controllo tramite telecamere alla sorveglianza telematica, tutto è stato creato dall’uomo per appropriarsi di uno spazio, distinguerlo, separarlo da quello dell’altro. E d’altronde la definizione più comune che viene data di confine è quella di un limite che separa due entità. Una distinzione e una separazione che sono state nel corso del tempo, fonte di conflitti terribili. A creare conflitto non è dunque il confine in quanto tale ma la percezione che gli uomini hanno di tale confine e che rimanda alla definizione data precedentemente.

Confine in quanto divisione, separazione, distinzione netta tra chi è al di qua e chi è al di là.
Diventa allora abbastanza intuitivo supporre che se il problema risiede in questa percezione distorta, l’unica via possibile verso una risoluzione dei problemi legati al confine stà nel riuscire a cambiare l’approccio che le persone hanno rispetto al confine stesso.
Questa percezione dovrebbe essere completamente ribaltata fino a divenire punto di sutura, di contatto, di scambio, d’incontro.
G. Sautter ha detto a proposito “la frontiera naturale è un’aberrazione: un ruscello, un fiume, una valle uniscono almeno quanto non dividano; e la ricchezza e la creatività di un paese non si basano sull’omogeneità di un solo popolo ma, al contrario, sull’eterogeneità delle regioni, dei paesaggi, delle storie, delle culture. E’ questa eterogeneità che permette ad un paese di creare una cultura fatta di sincretismi complessi e aperta verso l’esterno e l’arrivo dei nuovi migranti”.

Il meticciato culturale è una ricchezza straordinaria perché sinonimo di energia vitale, creatività, ricambio e ancora di più in Africa, dove esiste una grande varietà di lingue e culture differenti. Le città africane sono esse stesse luoghi di incontro e di fusione tra le culture perché trasformate loro malgrado dalla politica coloniale in luoghi di contatto e scambio tra gruppi ed individui diversi. Queste città costituiscono un esempio positivo di luoghi in cui convive la diversità. Il Senegal ne è l’esempio principe, paese dai mille volti e dalle mille genti, dove etnie e religioni differenti convivono pacificamente dall’indipendenza fino ad oggi.
Sorrido pensando che da anni mi stò dedicado alla ricerca sulla tematica del confine quando io sono una sostenitrice convinta dell’apertura delle frontiere. Contradditorio? No, proprio per nulla. Capire la percezione che le persone hanno del confine, sia esso geografico, politico, sociale, culturale, aiuta a meglio a comprendere che affinché avvenga una vera e propria rivoluzione che ribalti l’attuale sistema mondo è necessaria una presa di coscienza dei singoli, proprio rispetto al concetto di confine.

Finché ognuno di noi non arriverà a liberarsi dall’idea costante di limitare il proprio spazio, il proprio pensiero, le proprie conoscenze, non ci sarà possibilità di sviluppo, di miglioramento. Il confine è per me sinonimo di limite, di blocco ed è per questo che andrebbe abolito. Strettamente connessa alla tematica del confine, la tematica migratoria. Un argomento delicato e che ha caratterizzato l’attualità degli ultimi decenni politici europei. Più i confini vengono chiusi, più si creano barriere e fortezze, più sembrano crescere i problemi. I confini diventano prigioni dorate in cui le persone si ingabbiano e, come un cerchio che si stringe pian piano, pian piano rimpiccioliscono le possibilità, regrediscono le menti, si arresta il progresso.
Così scrivevo in una nota durante la mia ricerca su campo in Senegal: “Henry Miller disse una volta: “la nostra destinazione non è mai un luogo, ma un nuovo modo di vedere le cose”. Mi piacerebbe vedere la migrazione in questo modo ovvero la possibilità di poter aprirsi ad un nuovo punto di vista, un nuovo orizzonte, una nuova prospettiva. E in fondo questo è anche il senso profondo del viaggio, ovvero la scoperta. L’essere umano è per sua natura uno scopritore, un viaggiatore e la storia lo insegna, oggi il mondo non sarebbe lo stesso se gli uomini non avessero potuto viaggiare e se non avessero potuto confrontarsi, scambiarsi idee e merci, imparando gli uni dagli altri. Eppure la tematica migratoria è troppo spesso strumentalizzata, se ne sottolinea solo il lato negativo richiamando associazioni spontanee quali orde di disperati che si accalcano alle nostre frontiere, invasioni di stranieri incontrollati ed incontrollabili, la perdita della nostra cultura a favore di una o più, importate ed imposte da fuori, come se la migrazione fosse unidirezionale, dal Sud verso il Nord. La migrazione invece riguarda tutti. Gli uomini si spostano sempre, per lavoro, vacanza, necessità, attraversando paesi, passando da una città all’altra, ritornando e ripartendo. Mi immagino il mondo un grande frullatore in cui tutto si mescola, persone, idee, opinioni e in questo vortice incredibile nascono intrecci interessanti, nuovi. Migrazione come energia rinnovatrice e cambiamento. Movimento che si oppone alla statiticità dell’immutevole, così io vedo la migrazione.

Un concetto semplice, quello di incontro e di meticciato proprio di Senghor. E anche per il famoso presidente e poeta senegalese, l’uomo doveva liberarsi dall’idea di confine in quanto limite.
Mamadou è un ragazzo senegalese che ho conosciuto proprio nel corso della mia ricerca all’UCAD, l’Università pubblica Cheikh Anta Diop di Dakar. Anche lui stà finendo un dottorato di ricerca, in fisica nucleare, ed è lui che mi ha introdotto allo studio dei grandi pensatori senegalesi come Senghor e Chaik Anta Diop. Così spiega il pensiero senghoriano nel corso dell’intervista che io stessa gli ho fatto proprio per la mia tesi di dottorato: “ Quando io ho una cultura, ho un modo di vedere, ho un modo di fare, ho un modo di pensare, se arrivi tu e mi imponi un altro modo di pensare, di fare e di vedere, questo è un male ma è necessario nelle misura in cui bisogna riuscire ad evolversi. Senghor lui aveva capito che c’è un dinamismo dell’universo, un dinamismo della civilizzazione, un dinamismo della cultura. Niente è statico. La cultura al singolare è un concetto morto ormai da tempo. Non esistono frontiere nella cultura. Non puoi dire ‘questa è la mia cultura’ stabilirti dentro a confini e restare isolato all’interno di ciò che tu stesso hai definito confini della tua cultura. Questo è un modo di pensare assolutamente negativo. Ora se chi viene in contatto con noi ha un modo di vedere migliore perché non imparare dal nuovo. La cultura è dinamismo, se non ti evolvi allora sei destinato a fossilizzarti, bisogna riuscire a partecipare al cambiamento del proprio tempo. Se nel cambiamento che si ha nell’incontro con l’altro è positivo, se il punto finale è migliore rispetto al punto di partenza, allora davvero non ci vedo nulla di male. Questa era l’idea di Senghor e io credo nella sua idea della civilizzazione dell’universale, l’incontro tra il dare e il ricevere, il meticciato culturale e il meticciato biologico al di là di tutti i sogni. Il futuro è questo e Senghor aveva visto lontano, non vi sono più confini tra le culture, tante infatti sono le culture e tra tutte queste culture dobbiamo arrivare alla sintesi di una cultura migliore […..] Lui diceva che per il domani bisogna imparare oggi e per farlo dobbiamo conoscere e imparare dalla cultura dell’altro. Senghor aveva visto che il futuro era il meticciato, impossibile per lui pensare di rinchiudersi all’interno dei propri paesi. Questo vorrebbe dire regredire, retrocedere. Se osservi bene la cultura senegalese ti accorgerai di com’è ricca e questo perché ha assorbito dalle altre.
Oltrepassare dunque l’idea di confine per incontrarsi e imparare vicendevolmente. Questo il passo necessario verso l’integrazione tra stati, come ha detto anche Mamadou: “Il punto centrale dell’integrazione africana in generale è riuscire ad abbandonare questa centralità delle caratteristiche peculiari di ognuno verso un concetto più semplice, dobbiamo sentirci tutti fratelli, poco importa se siamo senegalesi, gambiani, maliani. Perché l’integrazione avvenga le persone devono imparare a sentirsi africani e non senegalesi, gambiani, maliani. L’integrazione politica dovrà avvenire solo successivamente e come completamente dell’integrazione fatta dal basso, dalla gente. Le persone devono andare al di là dei confini, fossero anch’essi quelli del colore della pelle. Ma se continuiamo a sentirci senegalesi rispetto ai gambiani e gambiani rispetto ai senegalesi allora non si potrà davvero mai ipotizzare una reale unione, nemmeno se cercassero di imporlo dall’alto, a livello politico. Ognuno di noi dovrebbe invece considerare l’altro come il suo riflesso in uno specchio. Il problema è che la gente ha costantemente in testa l’idea di confine ed è pericoloso. Il confine è una barriera d’integrazione culturale. I confini sono delgi ostacoli all’integrazione perché le persone hanno sempre nella loro coscienza che sono senegalesi o gambiani. Il confine ti limita e l’altro è sempre visto come uno straniero. Quando viaggio per lavoro e mi chiedono di dove sono, io rispondo, africano, ma vivo in Senegal. Dobbiamo imparare a sentirci cittadini del mondo, sulla scia della visione senghoriana”.