Il colore delle parole

L.M. - 28 Febbraio 2011
Il colore della parole, un film documentario di Marco Simon Puccioni. Sezione Orizzonti della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia 2009
di Luigi Riccio

RECENSIONI. Il colore della parole è attraversato dalle voci e dai racconti di quattro immigrati africani residenti in Italia da più di trent’anni. C’è Teodoro, poeta e mediatore culturale, Martin, musicista e informatico, Justin, sindacalista, e Steve, mediatore culturale. Arrivati in Italia nei periodi politicamente caldi degli anni ’70 e ’80, raccontano cosa significasse a quell’epoca essere stranieri, offrendo una lettura per così dire “esterna” delle turbolenze di quel periodo. C’è che ricorda il rapimento del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.
Del modo in cui, come un italiano qualsiasi, si accorse di ciò che era accaduto: uscendo per strada, le copiose macchine della polizia per le strade di Roma lasciavano chiaramente presagire che qualcosa di grave fosse successo. Ma non solo. Le lotte, dei giovani di quegli anni che si battevano per legalità e giustizia, e a cui loro aderivano affiancando le loro, e quindi l’antirazzismo, l’emancipazione degli immigrati. Avanzando velocemente con gli anni, poi, si arriva alle prime leggi ad hoc sugli extracomunitari. La legge Martelli, la Turco-Napolitano – “che affrontava dei problemi, lasciandone tuttavia scoperti degli altri” -, la Bossi-Fini – che, secondo Teodoro, più che legge “per” è una legge “contro”, “utile solo a qualche partito politico al momento delle elezioni”-.
Africani che si sentono a tutti gli effetti italiani. Che vivono qui da trent’anni, alcuni hanno sposato donne italiane, hanno figli con doppie radici, a volte conciliabili, altre no, qualora l’essere uno non lascia spazio per essere anche l’altro. Ma il film non si ferma qui.
Lo zoom è su Teodoro, in Camerun promesso ad un futuro da Patriarca nella propria comunità, che ricorda di come essere poeta nel suo paese significasse radunare un gruppo e “poetare” a voce, improvvisando; e di come qui in Italia, non essendo ciò possibile, avesse iniziato a scrivere, per far comunque in modo di essere ascoltato. La sua è una missione, in realtà anche in Italia è un Patriarca: qui si batte perché agli immigrati vengano concessi dei diritti, in Camerun per far sì che le tradizioni non vengano dimenticate, dissuadendo i giovani dai “viaggi della speranza”, che come meta probabile incontrano la morte, o un poliziotto libico.
Il colore delle parole si interroga sulle prigioni invisibili che il colore della nostra pelle ci impone, una segregazione a volte scelta, in altre imposta. Ma sempre del tutto inutile. Poiché noi, è proprio attraverso le parole che viviamo, ci esprimiamo. E quelle, di colori, sono prive.