Regno Unito

Woolwich, una settimana dopo

- 1 Giugno 2013

Le autorità cercano di riportare tutto alla normalità e alla calma. Ma il sentimento anti-islamico è sempre più diffuso. Con molto torto e pochissima ragione.

Ero nella hall di un ostello quando il tg ha dato la notizia dell’assurda violenza di Woolwich. Tanta gente, tanta confusione. Abbiamo puntato lo sguardo sul televisore per un attimo, il tempo di registrare che cosa stesse accadendo, e poi siamo tornati tutti alle nostre cose. Siamo a Londra, un omicidio per strada, anche se molto cruento, non è straordinario.
Ma i media sono d’altro avviso e rilanciano la notizia in continuazione. E sotto questo bombardamento di immagini, aggiornamenti, commenti, tutti cominciamo a prestare attenzione. Attentato, dicono. Si tratta di attentato. Islamico. Due uomini ventenni hanno decapitato con dei coltelli da cucina un soldato reduce dell’Afganistan dichiarando di essere estremisti islamici. Si, perché invece di darsi alla fuga, come ci si aspetterebbe in questi casi, i due si mettono a parlare con una passante che, invece di scappare a sua volta, li riprende con un telefonino. E uno dei due si offre proprio alla videocamera e spiega che quella è una vendetta per tutti i musulmani uccisi dai soldati inglesi. Neanche Quentin Tarantino avrebbe potuto inventare una scena tanto surreale.
Nei giorni successivi si parla tanto e comprensibilmente della vittima: Lee Rigby, 25 anni, padre di un bimbo di due anni, divorziato e fidanzato con una giovane soldatessa, reduce dell’Afghanistan, che aveva voluto fare il militare sin da piccolo ed era una brava persona. Un ragazzo disponibile e generoso, dicono gli amici e i vicini di casa. E si parla ovviamente dei due attentatori, che sono scuri di pelle ma britannici dalla nascita. Michael Adebolajo, 28 anni, viene da una famiglia cristiana di origine nigeriana. Non si sa cosa volesse fare da piccolo, ma certo da adolescente aveva fatto parte di una gang dedita ad azioni criminali varie. Poi la conversione alla religione islamica e l’università, la University of Greenwich, corso di sociologia. Entra a far parte di un gruppo estremista dichiarato fuori legge dopo gli attentati del 2005. Sembra che fosse stato arrestato una volta e velocemente rilasciato. Un suo amico parla di contatti con l’MI5, i servizi segreti inglesi, che lo avrebbero assoldato per servirsene come infiltrato. Dell’altro attentatore, Michael Adebowale, non si viene a sapere molto. Solo che ha 22 anni e condivideva l’appartamento di Adebolajo.
Le reazione estreme non si fanno attendere. In tv appaiono i militanti dell’Edl (English Defense League), che fanno dimostrazioni per le strade di Woolwich e rilasciano dichiarazioni contro Islam e immigrazione. Accusano il governo inglese di essere troppo permissivo nei confronti dei musulmani e dei migranti. I servizi giornalistici mostrano le prime manifestazioni di intolleranza. Si comincia con una macchina utilitaria dove qualcuno con una bomboletta spray ha scritto “terrorist inside”. Si prosegue con un’ondata di attacchi alle moschee, a partire da quelle di Kent e Essex. Quindi, dagli oggetti si passa alle persone: alcune ragazze velate vengono aggredite e viene loro strappato il velo. Al numero verde contro le discriminazioni razziali Tell Mama, nella settimana successiva all’omicidio, arrivano almeno duecento segnalazioni di episodi di islamofobia. Un sondaggio realizzato dal Guardian rivela che circa due terzi della popolazione considerano l’Islam una minaccia.
Il Primo Ministro inglese, David Cameron, all’indomani dell’omicidio dichiara con fermezza: «Chi ha commesso questo crimine voleva dividerci. L’attacco è anche un tradimento dell’Islam. Non c’è nulla nell’Islam che lo giustifichi». I rappresentanti della comunità islamica e gli imam intervengono per sottolineare che quell’omicidio è contrario alla loro fede. I rappresenti di altre confessioni religiose esprimono solidarietà ai musulmani e nelle interviste si soffermano sul valore del dialogo e della tolleranza. La famiglia di Michael Adebolajo si scusa pubblicamente per il crimine del figlio. L’associazione Help for Heroes, di cui faceva parte Lee Rigby che indossava proprio la loro maglietta al momento dell’uccisione, è stata inondata di offerte, ma rifiuta senza indugi quelle dell’Edl. Pecunia olent, a volte.
Ma la gente comune, quella che capita di incontrare nei pub e che non si sofferma abitualmente su questioni come l’intercultura e il dialogo religioso, rimane però con l’idea di avere un nemico interno. Chiedendo in giro perché quei due uomini possano aver commesso un crimine tanto abbietto, la risposta ricorrente è che erano musulmani. D’altra parte, in questo e in altri casi criminosi (qualche giorno prima dell’omicidio di Woolwich, per esempio, era stata sgominata una gang di violentatori pedofili prevalentemente pakistani) i media non hanno resistito alla tentazione di collegare all’accaduto fattori culturali e religiosi. Poco è importato che i due ragazzi fossero cresciuti in Inghilterra e avessero “origine” cristiana.
D’altra parte, anche in occasione dei riot del 2011 (ricordate? Erano partiti da Tottenham e in pochi giorni avevano messo a ferro e fuoco la capitale) ci si era limitati ad apporre il bollino rosso della “criminalità” e ad invocare gli arresti senza farsi altre domande, senza chiedersi da quale disagio potesse essere stata generata la rivolta. E adesso, dopo Woolwhich, sta contraddittoriamente andando in onda un film simile.

Francesca Materozzi