Mohamud Mohamed Guled

Morire di disamore e indifferenza

- 23 Giugno 2013

Il ragazzo somalo suicidatosi a Firenze, raccontato dai migranti che hanno vissuto con lui a Pisa e dalle associazioni locali che lo hanno conosciuto.

«Morto di disamore e di indifferenza». Così alcune associazioni pisane hanno definito il suicidio di Mohamud Mohamed Guled, il ragazzo somalo che si è lanciato dal quarto piano di un edificio occupato a Firenze. Guled era stato ospite del Centro per richiedenti asilo di Pisa, dove aveva trascorso gran parte del suo soggiorno italiano. Anche per questo, la notizia della sua morte si è diffusa rapidamente nella piccola città toscana: e i primi ad esserne informati sono stati proprio i migranti che avevano vissuto insieme a lui.

Il Centro era stato occupato il 28 Febbraio scorso, giorno in cui si era chiusa l’Emergenza Nord Africa. La Croce Rossa, ente gestore della struttura, non aveva fornito alcuna garanzia circa le future sistemazioni degli ospiti: così, i profughi si erano rifiutati di andarsene, e avevano deciso di rimanere. Da allora, quel non-luogo inospitale (una vera e propria baraccopoli, fatta di container gelidi d’inverno e roventi d’estate) è diventato un laboratorio di convivenza: vi si tengono corsi di italiano, iniziative culturali, proiezioni di film e dibattiti. E ai migranti, che continuano ad abitare qui, si sono aggiunti i volontari dell’associazione Africa Insieme, gli attivisti del Centro Sociale Rebeldia e gli studenti del corso di laurea in “Scienze per la Pace”.

Tutti, qui, conoscevano bene Guled. E tutti ricordano quando decise di andarsene dal Centro. Era il 28 febbraio, lo stesso giorno in cui è cominciata l’occupazione della struttura. «Nessuno di noi voleva rimanere qui», ci racconta un ragazzo del Ciad, «volevamo solo qualche garanzia sul nostro futuro… ci mandate via, ma dove andiamo a dormire? Come ci manteniamo se siamo senza lavoro? Non potete allontanarci così, senza nessuna alternativa…».

«A queste richieste ragionevoli», prosegue Fabio, studente di Scienze per la Pace, «non abbiamo ricevuto risposta. Così, assieme ai profughi, abbiamo deciso di rimanere in questa struttura. È stato in quel momento che la Croce Rossa e la Prefettura hanno minacciato i migranti: chi decide di occupare, hanno detto, non avrà i 500 euro di buonuscita previsti dall’Emergenza Nord Africa. Molti hanno deciso di restare, mentre Guled e gli altri somali hanno preferito andarsene. Ci siamo salutati con un abbraccio, ognuno aveva fatto la sua scelta ed era giusto così».

 

Abbandonato dalle istituzioni

È in seguito a queste vicende, dunque, che Guled si è allontanato dal Centro della Croce Rossa. Ma qui, tra i profughi che lo hanno conosciuto, i dubbi sono pochi: Guled non doveva essere abbandonato in quel modo. «Soffriva di depressione e di problemi psicologici», dicono i ragazzi del Ciad, «era in cura dai medici del Santa Chiara [l’ospedale di Pisa, ndr.], e aveva bisogno di essere seguito… quel 28 Febbraio nessuno ha tenuto conto della sua situazione. Lo hanno abbandonato a se stesso».

Eppure, le circolari sulla chiusura dell’Emergenza Nord Africa erano chiare: i profughi appartenenti a “categorie vulnerabili” dovevano essere seguiti; per loro, si dovevano trovare forme di accoglienza alternative. Lo accennava una circolare del 18 Febbraio, e lo ribadiva più chiaramente una nota ministeriale del 1 Marzo. «Debbono ritenersi compresi nella categoria vulnerabili», scriveva il Viminale, «i soggetti che necessitano di assistenza sanitaria specialistica e/o prolungata». Più chiaro di così…

Le associazioni che hanno seguito tutta la vicenda – Rebeldia, Africa Insieme, ma anche il gruppo locale di Emergency, la scuola di italiano del gruppo El Comedor e quella di «ScuolaMondo» – accusano le istituzioni di aver abbandonato Guled due volte: al momento della chiusura dell’Emergenza Nord Africa, e durante il soggiorno del giovane somalo presso il Centro della Croce Rossa.

«In quasi due anni di permanenza nella struttura», dicono le associazioni in una nota, «il ragazzo aveva vissuto in uno stato vegetativo, con il riconoscimento dei propri bisogni ridotto all’essenziale: cibo, vestiti, un tetto per dormire e qualche ora a settimana di lezione di italiano. Nessun percorso di integrazione era stato attivato per lui come per gli altri migranti ospiti della struttura». Poi, dopo il fatidico 28 febbraio, «Guled ormai era stato allontanato e nessuno si era più fatto carico dei suoi problemi e delle sue difficoltà. Uno in meno a cui badare».

Non basta. Secondo le associazioni, Guled era stato «trasformato in un numero, come venivano identificati i suoi compagni del centro di accoglienza».

«È stata la cosa che mi ha colpito di più la prima volta che sono arrivato qui», ci spiega Fabio, sfidando la nostra incredulità, «gli operatori della Croce Rossa non volevano chiamare i ragazzi per nome. Così usavano i numeri: “numero due, vieni che è pronto da mangiare”… “numero cinque, oggi hai l’appuntamento con l’avvocato”…».

 I ragazzi che autogestiscono il Centro di Accoglienza sono decisi a non far passare nel silenzio tutta questa vicenda. Venerdì scorso hanno organizzato un’assemblea cittadina proprio nella struttura della Croce Rossa. E giovedì prossimo, nel pomeriggio, manifesteranno davanti al Consiglio Comunale: perché nessuno, mai più, sia ridotto a un semplice numero.

Sergio Bontempelli