Ritratti

Il medico somalo contro le mgf

Stefania Ragusa - 1 Dicembre 2013

 

Omar_singolo2Abdulcadir Omar Hussein è nato a Mogadiscio 61 anni fa e da oltre 30 vive nel nostro Paese. Fa il ginecologo, all’ospedale Careggi di Firenze. Ha una moglie italiana, ginecologa anche lei, compagna di vita e di impegno, e due figli entrambi studenti universitari di medicina. L’Italia ha improvvisamente sentito parlare di lui nel 2004, quando scoppiò la polemica sulla cosiddetta infibulazione soft e lui e la moglie furono oggetto di un linciaggio mediatico particolarmente immotivato e crudele. Erano entrambi impegnati da anni nella lotta contro le mutilazioni genitali e nel sostegno alle donne che le avevano subite. Il dottor Omar (come tutti lo chiamano a Firenze) sentiva questo argomento in modo particolare per ragioni personali facilmente comprensibili. In Somalia le pratiche di modificazione dei genitali femminili (Mgf)  hanno un’incidenza del 98 per cento e lui aveva vissuto da vicino l’esperienza delle sue sorelline e cuginette, aveva potuto riflettere sulla crudeltà di questo rito e, contemporaneamente, sulle sue implicazioni sociali e psicologiche. Molto prima che il tema diventasse d’attualità, lui aveva incominciato ad occuparsi di deinfibulazione e cercava di dissuadere quelle mamme che, convinte di fare il bene delle figlie, organizzavano per loro l’intervento.
Le Mgf, con le loro marcate gradazioni e differenze, rappresentano infatti un importantissimo rito di passaggio che viene gestito essenzialmente dalle donne. Forte del suo sapere (non solo medico), insieme con la moglie, Omar aveva messo a punto un rito alternativo, innocuo ma simbolicamente rilevante, che avrebbe potuto portare a una drastica riduzione sia delle Mgf perpetrate in Italia clandestinamente, sia dei viaggi “al paese” orientati, appunto, all’intervento. Il rito prevedeva una lievissima puntura sul clitoride della bambina, fatta sotto anestesia in ospedale, quindi in condizioni igieniche sicure. Lui e la moglie si erano mossi con mille cautele. Avevano chiesto e ottenuto il parere positivo del Comitato di Bioetica locale, si erano confrontati con altri medici, con antropologi e con i rappresentanti di alcune comunità immigrate. Stavano sottoponendo la questione all’Ordine dei Medici e alla Regione Toscana, quando sulla scena hanno fatto il loro rumoroso ingresso alcune associazioni femministe (certo animate dalle migliori intenzioni, ma probabilmente fuorviate da un po’ di pregiudizio ideologico) che hanno gridato allo scandalo e accusato il medico somalo e la moglie di voler legalizzare l’infibulazione in Italia, in nome dell’oscurantismo e del relativismo culturale. Come accade spesso in questi casi (è successo con il velo, con la poligamia e con mille altre questioni), i giornali hanno sparato titoli a piena pagina, i talk show si sono animati e la frenesia di schierarsi ha fatto passare, non in secondo ma in decimo piano, il dovere di informarsi per cercare di capire di che cosa realmente si stesse parlando. Omar e la moglie, che avevano semplicemente avanzato una proposta, perfettibile e migliorabile ma sensata, sono stati (solo metaforicamente, per fortuna) fatti a pezzi. La Regione Toscana, preoccupata per le ricadute politiche e la perdita di consenso, ha rigettato in fretta e furia la proposta.
È in quel periodo che, grazie a Glamour, il giornale per cui lavoro, ho avuto l’opportunità di fare la mia prima intervista al dottor Omar. Quando lo avevo chiamato pensavo, in tutta sincerità, che mi avrebbe mandato al diavolo. Il linciaggio mediatico contro di lui era al suo acme e mi aspettavo che dicesse di non volere altri contatti con la categoria dei giornalisti. Invece mi aveva dedicato il tempo necessario a costruire un articolo completo. Mi aveva spiegato tutto con pazienza e dovizia di particolari. Di lui avevo ricavato un’ottima impressione e il senso della proposta mi era apparso chiaro. E, a un anno di distanza e ad acque finalmente tranquille, sono stata felice di apprendere che la commissione regionale di Bioetica aveva espresso parere favorevole sul rito, pur specificando che, non essendoci per esso alcuna indicazione terapeutica, non avrebbe potuto essere effettuato a carico del servizio sanitario nazionale.

Accingendomi a scrivere un libro sugli africani che in Italia facevano cose degne di attenzione, mi è sembrato naturale andare a ripescare Omar.
Il nostro incontro si svolge in un giorno feriale all’ospedale di Careggi, nella stanza che accoglie il Centro di riferimento regionale per la prevenzione e la cura delle complicanze delle Mgf, centro che, da un punto di vista istituzionale, ha avuto il suo riconoscimento nel 2003 ma che, nei fatti, è operativo da più di dieci anni. Mi tocca passare un po’ di tempo in corridoio, in attesa del mio turno. Dalla stanza vedo entrare e uscire uomini e donne di tutte le nazionalità. Omar chiama personalmente i pazienti e li riaccompagna alla porta. Durante una di queste operazioni mi intravede e viene fuori per presentarsi. «Tra poco tocca a te», mi avvisa. «Hai pazienza? Perché vedrai: verremo interrotti un mucchio di volte». E, in effetti, è un continuo drin drin di telefono e toc toc alla porta. Sono studenti che chiedono appuntamento perché stanno facendo una tesi sulle Mgf, pazienti che passano a salutare, persone che chiamano dall’estero per una consulenza: non che in Europa manchino centri specifici su deinfibulazione e dintorni, ma potersi rivolgere a un medico africano, con un’esperienza concreta e non solo accademica, è un’altra cosa. A un certo punto arriva anche un giovane somalo che ha semplicemente bisogno d’aiuto per rinnovare il suo permesso di soggiorno. «Io faccio il medico ma anche il mediatore culturale», dice Omar sorridendo.

Nella sua stanza, al Careggi, Omar non si occupa solo di Mfg ma anche della promozione della salute delle donne immigrate. Non c’è bisogno di appuntamento, la burocrazia è ridotta al minimo. «Per aiutare davvero le straniere che vivono in Italia bisogna in primo luogo tenere conto del loro stile di vita», mi spiega. «Considerare, per esempio, che per molte di loro sarebbe difficile tornare per un secondo appuntamento o pianificare le visite. Quindi, una volta che sono arrivate sin qui, bisogna fare più cose possibili contestualmente. L’accesso è libero. Non c’è bisogno di prenotazione. C’è sempre qualcuno. Al massimo, si deve fare un po’ di fila». Toc toc. Entra una coppia che è diretta al centro contro la sterilità e deve fare un esame. Passa da Omar semplicemente per informarlo che le cose stanno procedendo. E per salutarlo. Toc toc. Entra un elettricista burkinabè che vuol sapere quando Omar si deciderà ad andare a cena a casa sua. Toc toc. Entra una paziente italiana e bianca presumibilmente senza problemi legati alle Mfg… «Prima di venire al centro, questa mattina», mi dice, tra un ingresso e l’altro, «ho operato una donna che da bambina era stata infibulata ben tre volte e che si trovava nell’impossibilità di avere rapporti sessuali».

Il padre di Omar faceva l’avvocato, ma questo nella Mogadiscio degli anni ‘40, non significava essere ricchi. Vivevano in una capanna e molte volte hanno patito la fame. Omar ha studiato dai preti italiani, in una scuola dedicata a Leonardo Da Vinci. Poi è arrivata l’opportunità di andare in Italia, a Firenze, per fare l’università, e lui l’ha colta al volo. Si laurea in medicina, si specializza in ginecologia. Dal 1991 è in organico al Policlinico di Firenze. «Studiare in Italia non è stato difficile. Parlavo già l’italiano, lo avevo imparato in Somalia, dai preti. Avevo 13 anni quando ho deciso che da grande avrei fatto il medico. Mia madre aveva appena partorito e, per qualche ragione, continuava a perdere fiumi di sangue. L’infermiera mi ha detto: se continua così, non arriverà viva a stasera. E io ho chiesto se c’era un medico, dov’era. Il medico c’è, mi è stato risposto. È un italiano. Ma ha finito il suo turno e tornerà tra due giorni. Tra due giorni è troppo tardi. Bisogna farlo arrivare prima. L’infermiera ha scosso la testa come per dire “non c’è un modo per farlo arrivare prima”. Sono partito come un treno per andare a Casa Italia, la villa dove vivevano gli italiani. Il guardiano mi ha visto così risoluto che non ha avuto cuore di fermarmi. Il medico era lì, stava giocando a tennis. Gli ho preso la palla. Lui mi ha guardato perplesso: “Yero (che è il modo in cui ci si appella normalmente ai ragazzi), dammi la palla. Cosa fai qui?”. Gli ho spiegato. Gli ho detto di mia madre. E lui: “Non posso fare niente per lei. Verrò tra due giorni”. Allora hai anche finito di giocare, gli ho detto, trattenendo la palla. È scoppiato un putiferio. È intervenuto il custode. Ma io ero una furia. Nessuno riusciva a fermarmi. A loro non era chiaro, ma io stavo lottando per la vita. Non la mia ma quella di una persona che amavo ancora più di me. Il medico a un certo punto mi chiede: “Come mai parli italiano così bene?”. Perché sono in classe con tuo figlio, io ti conosco. Solo a quel punto si è deciso a lasciare il suo tennis e a seguirmi. Chissà cosa è passato nella sua mente. Forse il volto di suo figlio e il pensiero che non avrebbe saputo spiegargli perché aveva lasciato morire la madre di un suo compagno di scuola. Mia madre si è salvata. Io mi sono detto: cose così non possono accadere. Devo fare il medico per cercare di impedire che accadano ancora. Anche alle donne bianche. Magari verrà un giorno in cui le parti si capovolgeranno e allora vedranno com’è il nostro cuore. Non pensavo, davvero, che le parti si sarebbero potute capovolgere, nel senso che avrei fatto il medico in Italia».

La sua idea, infatti, era studiare, formarsi bene e tornare a esercitare in Somalia. Era pronto a farlo. Nel 1987 stava partendo con tutta la famiglia. Ma la guerra civile era già scoppiata e lui ha dovuto cambiare i suoi programmi. «Per fortuna mia moglie era stata previdente. Aveva insistito affinché, prima di mollare tutto, facessimo un periodo di prova. Prendiamo l’aspettativa, vediamo se riusciamo ad assestarci a Mogadiscio e poi lasciamo effettivamente i lavori italiani e mettiamo in vendita la casa. Ma assestarsi a Mogadiscio non era facile. L’apparato statale si stava sbriciolando. C’era un clima di grande paura, continui rapimenti, violenza e io mi sentivo minacciato. Da solo, forse, avrei potuto rischiare. Ma non potevo coinvolgere i miei figli, che erano bambini, in questa cosa. Mi sono detto: se non posso aiutare la mia gente in Somalia voglio comunque rendermi utile in Italia. Siamo tornati e ho cominciato ad occuparmi della salute delle immigrate».

Omar però ha anche molte pazienti bianche, italiane: persone che lo hanno scelto per le sue qualità professionali e umane. «Sul lavoro non mi sono mai sentito discriminato. Nella vita quotidiana invece sono occorsi anche a me, come a tutti gli africani, episodi di razzismo. Alcuni lievi, buffi. Altri pesanti. Mi ricordo, una volta, ero al mare con i miei figli e trasportavo una borsa piena di asciugamani. Una signora mi ha fermato e mi ha chiesto quanti soldi volevo per dargliene uno. Ho detto che, fosse stato per me, glielo avrei anche regalato, ma non potevo: con che cosa avrei asciugato i miei figli? Un’altra, sempre sulla spiaggia, ho incontrato un altro africano, che stava vendendo collanine. Mi ha guardato e mi ha detto: “Ma che, oggi non lavori? Con tutta questa gente…”. E una volta, invece, sono entrato in un ristorante per prenotare per la cena e non mi hanno lasciato neanche parlare. Hanno detto che non avevano bisogno di niente e che, per favore, me ne andassi via velocemente perché avevano da lavorare. Salvo poi vergognarsi moltissimo quando alla sera mi hanno visto lì e hanno capito che ero un cliente, anche ben introdotto».

È inevitabile tornare a parlare della vicenda del rito alternativo. «Io non ho mai pensato al rito come all’optimum. Il mio obiettivo è e rimane quello di eradicare la pratica delle Mfg. Ma se voglio arrivare a questo punto non posso arroccarmi sulle questioni di principio. Devo considerare la realtà. E la realtà è fatta di diversi tipi di donne. Ci sono quelle emancipate e risolute che condannano tutti gli interventi sul corpo per se stesse e per le loro figlie. Ci sono quelle che, pur desiderando integrarsi, non intendono rompere con le loro tradizioni, perché sentono che fare una cosa così le lascerebbe senza radici e senza forza. E ci sono quelle che non nutrono dubbi sulle Mfg e pensano che esse siano un bene assoluto. Il rito ovviamente non è per le prime. Non è neanche per le terze, che non sono interessate a formule di compromesso. È per le seconde, che rappresentano la maggioranza. È un’alternativa da offrire loro quando chiedono come potere intervenire sul corpo delle figlie in modalità (per così dire) sicura. Queste donne si trovano di fronte a un bivio. Dare loro questa opportunità significa metterle nella condizione di riprendere il cammino verso l’integrazione senza sprofondare in una crisi di identità. Lavorare con le donne che sono state infibulate o che vogliono fare infibulare le figlie, cercare una mediazione con loro è l’unico modo per fare prevenzione. È difficile che queste donne vengano raggiunte dalle campagne pubblicitarie ministeriali o dagli slogan delle femministe. È più facile che ciò avvenga parlando con un medico che sentono affine perché straniero come loro e che non le condanna. D’altra parte, in molti paesi in cui le Mfg sono diffuse, la loro eradicazione sta avvenendo grazie ai riti alternativi». La situazione oggi in Italia è, a grandi linee, la seguente. La legge condanna in modo risoluto gli interventi di Mfg, anche se praticati fuori dal nostro territorio. Il rito alternativo è ammesso ma può essere fatto solo privatamente. Omar dice: «Fino ad ora, comunque, ho sempre potuto non farlo. Come mai? Quando qualcuno arriva a chiederti il rito alternativo vuol dire che è già entrato nell’ordine di idee di non fare toccare le figlie. Vuol dire, in un certo senso, che l’obiettivo è stato raggiunto. Si tratta di aggiungere un po’ di informazione in più, un po’ di comprensione». Come dire: sotto sotto il rito è un trucco buono. Bastava essere un filo meno ideologici per capirlo. La capacità di indignarsi è sacrosanta, ma se si trasforma in una mannaia non serve a niente.

Stefania Ragusa  (dal libro Africa qui. Le storie che non ci raccontano, Edizioni dell’Arco, 2008).