Letture migranti

Il Viaggio di Samia

Gabriella Grasso - 20 Gennaio 2014

samiaQuando nel 2011 lessi il libro Le Rosarno d’Italia di Stefania Ragusa, direttore di Corriere delle Migrazioni, mi colpì una riflessione, posta dall’autrice in una nota: «Quando nel 1938 sono state introdotte nel nostro Paese le leggi razziali, anche aiutare e proteggere ebrei rappresentava una violazione della legge. Oggi ci sembra normale che molte persone abbiano comunque scelto di farlo. Allora questa opzione non era molto scontata. Quando la storia triste di questi anni potrà essere raccontata con il giusto distacco, probabilmente la meraviglia collettiva investirà quelli che, avendone avuta la possibilità, non hanno aiutato i migranti a ottenere i documenti indispensabili a vivere con dignità. E ci si chiederà come sia stato possibile conciliare la fede cristiana con l’indifferenza». All’epoca il paragone tra le due situazioni mi parve decisamente azzardato. Ma ho continuato (e continuo) a rifletterci, soprattutto nei giorni scorsi leggendo le parole che Roberto Saviano ha dedicato, su Repubblica, al libro Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella (Feltrinelli, 15 euro): «Catozzella sembra accordare la voce di Samia alle sfumature di Anna Frank».
Forse non è un caso che Saviano abbia citato Anna Frank. Anche questa è la storia vera di una giovane donna che racconta in prima persona progetti, sogni, paure ed emozioni, inconsapevole del destino che è stato scritto per lei. Si tratta dell’atleta somala Samia Yusuf Omar che, pur non avendo un vero allenatore, una preparazione da professionista né l’equipaggiamento adatto, partecipò alle Olimpiadi di Pechino nel 2008. Arrivò ultima, ma non si scoraggiò. Impossibilitata dalla situazione politica del suo Paese a prepararsi per la successiva prova olimpica, quella di Londra del 2012, decise di affrontare il Viaggio dei Migranti per trovare un allenatore in Europa e coronare il suo sogno di vittoria. Perse la vita in mare, a pochi chilometri dalle coste siciliane.

Decine di scrittori migranti hanno raccontato, negli ultimi anni, l’odissea attraverso il Mediterraneo. A rendere più sopportabile l’orrore dei loro resoconti è il fatto che la loro sia la voce dei vivi. Il passaggio allucinante attraverso il Sahara, la spietatezza dei trafficanti di vite umane, le umiliazioni, la perdita del senso di umanità, la durezza delle prigioni libiche, sembrano di certo un prezzo altissimo da pagare, ma alla fine chi ha subìto tutto ciò ce l’ha fatta, è sopravvissuto. Nel leggere Non dirmi che hai paura (esattamente come nel leggere Il diario di Anna Frank) il lettore si trova, invece, in una posizione molto più difficile: è coinvolto visceralmente nella vita della protagonista pur sapendo, sin dall’inizio, che lei non ce la farà. Il dolore e la rabbia, quando si arriva in fondo alle 228 pagine di Non dirmi che hai paura, poi, sono amplificati da una consapevolezza schiacciante: Samia (così come, a voler insistere nel paragone, Anna) non rappresenta solo se stessa (sebbene la storia di Samia sia decisamente eccezionale), ma migliaia di altri uomini e donne che hanno subìto e subiscono la stessa sorte.

Ciò che colpisce di più del libro di Catozzella (i cui diritti, tra l’altro, sono stati già acquistati dal cinema) è che, se Anna Frank il diario lo scrisse di suo pugno, la voce di Samia, che arriva al cuore del lettore con la stessa potenza e semplicità, se l’è immaginata l’autore, riuscendo incredibilmente non a scrivere “di” Samia, ma a “diventare” Samia. Ne abbiamo parlato con lui.

Partiamo proprio dalla voce di Samia: come l’ha trovata?
«È stata la cosa più difficile. Credo che mi sia cresciuta dentro nel corso dei mesi, facendo ricerche e passando molto tempo con Hodan, sua sorella».

Ecco, ci racconta come si è preparato alla scrittura di questo libro e come è riuscito a incontrare Hodan?
«Per cominciare, ho fatto molte letture sulla Somalia, su suggerimento dell’amica Igiaba Scego, la scrittrice italosomala che è stata la prima, in Italia, a scrivere di Samia. Poi sono entrato in contatto con Teresa Krug, la giornalista di Al Jazeera che aveva conosciuto Samia e l’aveva aiutata ad arrivare in Etiopia. Infine, insieme a Zahara, una mediatrice culturale somala, abbiamo cercato Hodan su Facebook. È stata una fortuna trovarla: all’epoca aveva ancora un profilo con il proprio nome, che poi invece ha dovuto chiudere perché, a causa delle sue canzoni, che girano anche su Internet, ha ricevuto minacce da Al-Shabaab, il gruppo estremista islamico somalo. Per diverso tempo Hodan non ci ha risposto. Poi siamo riuscite a stabilire un contatto e l’abbiamo convinta a incontrarci».

Quindi siete partiti per Helsinki, dove lei vive.
«Sì. Lei è stata gentilissima, ci ha accolto con un ottimo pranzo. Ma quando ci siamo seduti a chiacchierare, non appena è stata nominata Samia, ha cominciato a piangere. Ho pensato che non potevo costringere questa donna a parlare con me. Così le abbiamo comunicato che, al posto di fermarci una settimana come previsto, saremmo ripartiti l’indomani. Prima di andarcene, però, ho voluto che sapesse perché volevo narrare la storia di sua sorella. E le ho raccontato com’erano andate le cose».

Lo dice anche a noi?
«Nel 2012 mi trovato in Kenya, nell’arcipelago di Lamu, quando una mattina ho sentito alla tv il discorso che lo sportivo somalo Abdi Bile ha pronunciato dopo la vittoria dell’atleta anglosomalo Mo Farah alle Olimpiadi di Londra: “Siamo felici per Mo, è il nostro orgoglio, ma non dimentichiamo Samia. Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar? La ragazza è morta… morta per raggiungere l’Occidente”. Sono rimasto folgorato. In quel momento ho sentito tutta la responsabilità di essere uno scrittore italiano, perché il mio Paese, che io ho sempre criticato nei miei libri e nelle inchieste, e di cui io vedo il male, per Samia rappresentava la speranza. Mi sono sentito responsabile per la sua morte. E volevo che Hodan lo sapesse».

A quel punto cosa è successo?
«La mia confessione ha fatto scattare qualcosa dentro di lei, perché ha deciso di affidarmi la storia di sua sorella. Per una settimana abbiamo parlato ininterrottamente da mattina a sera. I suoi racconti erano estremamente vividi. Siamo entrati nel profilo Facebook di Samia, abbiamo visto molti video, letto i lunghissimi messaggi che le due sorelle si erano inviate prima e durante il viaggio. Questa immersione dentro la vita di Samia è stata fondamentale. Credo di averla metabolizzata pian piano e così, alla fine, la sua voce è arrivata».

Il senso di responsabilità di cui parlava si è affievolito, dopo aver scritto il libro?
«Non proprio: ogni volta che faccio un’intervista sento la responsabilità di questa storia. So che per la sorella e la madre di Samia, il fatto che se ne parli, e nella maniera giusta, è quasi vitale. Il senso di responsabilità in quanto italiano è rimasto. E mentre scrivevo ne è scattato anche un altro, antico, legato al ruolo che gli italiani hanno avuto in Somalia durante la colonizzazione. Per questo, nonostante il nome con cui la capitale è chiamata in tutto il mondo sia Mogadisciu, ho voluto usare la versione italiana, con la O finale. Per ricordare la nostra presenza. Per lo stesso motivo ho inserito nel libro dei detti in italiano usati dal padre di Samia, che li aveva imparati da suo padre che aveva lavoravo con i coloni italiani. Il sottinteso, qui, è che noi siamo andati lì a fare quello che volevamo e loro invece, quando cercano di venire in Europa…».

Le aggiungo, allora, un altro motivo di responsabilità. Di libri sul Viaggio dei migranti, negli ultimi anni, ne sono stati scritti tanti. Alcuni anche di buon livello. Ma mediamente il migrante/scrittore pubblica con piccole case editrici che non raggiungono il grande pubblico. Il suo editore, invece, è, Feltrinelli…
«È vero, e questo mi fa sentire un po’ in colpa. Però penso che se questo libro, grazie al grande editore che lo pubblica, riuscirà a farsi sentire, sarà un bene per tutti. La mia speranza è che Non dirmi che hai paura abbia una voce abbastanza forte da aprire una breccia e far parlare di migrazione in maniera diversa».

Qual è il muro nel quale bisogna aprire questa breccia?
«Quello della comodità borghese, che fa dire a molti: “Che palle, queste storie sono una seccatura”. Io ho preso una storia bellissima ed esemplare e ho cercato di renderla il più comune possibile. Per far capire che, se fossi nato nel posto “sbagliato”, in un Paese più sfortunato, anche io potevo essere Samia. Ecco, questo mi interessa dire: le migrazioni e i movimenti non si fermano, il mondo si muove, e per capire quello di oggi bisogna raccontare vicende così. Perché le storie dei migranti sono le nostre: quelle degli italiani del passato, come i miei genitori che sono venuti su a Milano da Matera. E quelle dei giovani di oggi che cercano fortuna all’estero. Se riuscissimo a creare una consapevolezza su questo, sarebbe un enorme risultato».

Per descrivere il Viaggio di Samia, lei ha parlato con molti migranti. Che cosa le ha lasciato questa esperienza?
«Ho incontrato ragazzi di vari Paesi africani: Somalia, Etiopia, Congo… Mi ha colpito molto che parlino di se stessi con tranquillità, finché non si affronta il tema del Viaggio. Non vogliono assolutamente rivelare i loro nomi, farsi riprendere o registrare: e non perché non abbiano regolari documenti, ma per paura della polizia libica. Sono terrorizzati all’idea di finire di nuovo nelle loro mani, anche se ovviamente non è possibile, visto che ormai sono in Europa. Mi ha scioccato anche la naturalezza con cui alcuni di loro parlano della guerra. Un ragazzo somalo di 19 anni mi ha raccontato di come, mentre passeggiava per le strade di Mogadiscio con il suo migliore amico, questo sia stato ucciso con un colpo di pistola alla nuca, accanto a lui. Ha commentato, con tranquillità: “Sono cose che succedono sempre”. Mi ha anche raccontato che, quando era piccolo, andava con gli amici a guardare le sparatorie. Insomma, ha sviluppato un rapporto quasi familiare con la guerra. Al contrario, il Viaggio lo ha traumatizzato».

Cosa risponderebbe se qualcuno la accusasse di “buonismo”, ovvero di aver raccontato una storia commovente per suscitare facile simpatia verso i migranti, senza considerare le difficoltà pratiche che il loro arrivo comporta?
«Direi innanzitutto che questa storia era troppo bella per non raccontarla. E poi direi che sì, è vero: ma la letteratura non è la politica. Non deve risolvere problemi. Deve raccontare l’uomo. E questa storia è l’esempio di cosa un essere umano sia in grado di fare pur di realizzare un sogno».

Gabriella Grasso

 

Giuseppe Catozzella presenterà Non dirmi che hai paura a Milano lunedì 20 gennaio alle 18.30 presso laFeltrinelli di Piazza Piemonte e a Roma giovedì 23 gennaio alle 18 presso laFeltrinelli di via Appia 427.