Il racconto

Compagni di corsa

Mario Fillioley - 27 Gennaio 2014

Compagni di corsaIo sto correndo e questo che mi si affianca a sinistra non è in tenuta per correre, è vestito di tutto punto, ha pure la giacca a vento. Uno vestito così non dovrebbe correre e soprattutto non dovrebbe corrermi a fianco, non lo conosco nemmeno di vista, non vedo perché dovremmo correre assieme.

Io sto correndo e sul lato destro mi si affianca un altro, tale e quale a quello di prima, e non conosco neanche lui, quindi sto correndo in mezzo a due che non conosco, che non sembrano essere qua per correre, che non dovrebbero corrermi a fianco, e che invece corrono al mio stesso passo, e se io rallento, loro rallentano. Io sto correndo e comincio a sentirmi a disagio.

Mi chiedo se loro due si conoscono, e penso che sì, tra di loro si conoscono abbastanza da avere deciso di affiancarmi uno da un lato e uno dall’altro, una cosa che non può accadere per coincidenza e che quindi deve essere stata pianificata, e se l’hanno pianificata si sono parlati, e se si sono parlati si conoscono, e io invece non li conosco e non li voglio nemmeno conoscere, soprattutto perché è sera tardi, sono da solo e non ho nessuno con cui pianificare niente per oppormi a quello che loro hanno pianificato per me.

Allora pianifico che potrei accelerare di scatto e vedere che fanno, ma siccome sto già correndo accelerare vorrebbe dire scappare, e se poi mi inseguono che faccio?

Allora alzo la testa, ma la devo alzare parecchio perché questi due sono alti, non solo rispetto a me, ma alti in assoluto, e se non sono robusti lo sembrano a causa delle giacche a vento, quindi no, non è il caso di farci a botte, meglio se blocco lo sguardo a mezzo busto e lo riporto indietro, senza inquadrare la testa, che è troppo in alto, riabbasso gli occhi e continuo a correre guardando per terra, al mio ritmo, che è diventato il loro.

Però sono nervoso, mi confondo e sbaglio percorso, salto la traversa giusta e giro a quella dopo, me ne accorgo solo dopo cinquanta metri, e me ne accorgo perché i primi tre lampioni funzionano e gli altri dodici no, quindi adesso stiamo correndo al buio, nella traversa che di solito evito perché non è illuminata.

Ci vuole un poco prima che gli occhi passino dalla luce al buio, qualche secondo in cui non ci vedo quasi per niente, però la presenza di quei due la avverto lo stesso, e sono sempre qua, uno da un lato e uno dall’altro, e quando le pupille mi si dilatano penso che forse loro due non hanno ancora riacquistato la vista e posso guardarli in faccia senza farmene accorgere.

Solo che per guardare in alto non guardo più a terra e inciampo su una pigna, mi scompongo un po’ nella corsa e vado a sbattere contro quello di destra, e allora mi rendo conto che non ho sbagliato percorso, io non lo sbaglio mai il percorso, faccio sempre lo stesso, lo seguo come se avessi il pilota automatico, e infatti ero andato per girare a destra alla traversa giusta, ma questo qua, alto e robusto com’è, mi aveva chiuso il passo, c’ero andato a sbattere contro proprio come ci ho sbattuto contro adesso, e avevo dovuto continuare dritto fino alla traversa dopo, quando quello sulla sinistra mi aveva spinto a destra, e mi aveva fatto prendere questa, quella che scarto sempre perché dopo cinquanta metri diventa buia.

Mi chiedo se anche loro due sapevano che questa è la traversa coi lampioni rotti e se lo sapevano come facevano a saperlo, e mi rispondo che pure se non sembrano del posto il quartiere devono conoscerlo bene, e se conoscono bene il quartiere, allora conoscono bene pure me, che qui ci vengo a correre tutte le sere. Mancano sette lampioni rotti alla fine della traversa e io ancora non ho capito cosa vogliono da me, che corro in maglietta e pantaloncini e in mano ho solo le chiavi della macchina, e allora penso che, se non altro per una questione di taglia, non possono volere né la maglietta e nemmeno i pantaloncini, e che quindi vogliono per forza la macchina, e io di macchina ho solo quella, se me la tolgono rimango a piedi, quindi no, mi dispiace ma io furti non ne posso subire, fatevela prestare da vostra sorella la macchina, andate a rubarla a chi può ricomprarsela, tanto voi correte così bene, che ve ne fate della macchina, andateci a piedi dove dovete andare. Penso questa frase e mi fermo di colpo.

Nella mia testa quella frase è continuata con “negri di merda”: andateci a piedi dove dovete andare, negri di merda.

Mi sono sentito dirlo dentro la testa e mi sono bloccato, non ho corso più, il senso di colpa m’ha azzoppato le gambe. Però loro non se l’aspettavano. Li ho fregati senza volerlo, ma li ho fregati, hanno continuato per una decina di metri prima di accorgersi che io ero rimasto indietro di dieci metri, frenare, voltarsi.

Adesso stanno correndo di nuovo verso di me, vanno veloci, forse hanno sentito l’insulto dentro la mia testa e si sono arrabbiati, però ho ancora dieci metri di vantaggio, posso accelerare, posso provare ad andare a perdifiato e seminarli, ho una possibilità per salvarmi e per salvare pure la macchina, ma lo devo fare subito.

E allora scappo a tutta velocità, dieci, venti, cinquanta, cento metri, poi sento le sabbie mobili dell’acido lattico che mi risalgono le gambe dalla caviglia fino alla coscia e i muscoli che mi si addormentano con un dolore al gusto di yogurt. Sto respirando con la bocca tutta aperta, al posto della lingua ho una sciarpa di lana che mi penzola fuori, però corro lo stesso, o forse scappo, non lo so più, so che non reggo la mia stessa velocità, che rallento pure se non vorrei, e che comunque è tutto inutile perché tanto non li ho seminati, sono tutti e due qua, giusto un paio di metri e mi acchiappano, e la macchina è ancora troppo lontana, non ce la posso fare, basta, m’hanno preso, m’arrendo.

Prima delle botte mi tolgo le cuffiette, devo provare a parlarci, magari gli faccio pena, poi va bene, mi ammazzano a legnate lo stesso, ma non si pigliano la macchina, oppure si pigliano la macchina e non mi ammazzano a legnate, chi lo sa, forse sono ragionevoli:

– Sentite…

– Dove Umberto?

– Eh?

–         Umberto. Dove?

Loro non hanno manco il fiatone, io sono così in debito d’ossigeno che non riesco a ragionare.

–         Chi?

–         Umberto. Accolliensa, centro.

–         L’Umberto I?

–         Sì, Umberto, quella.

–         L’Umberto I è qua, alla fine di questa strada.

–         Quella?

–         Questa.

–         Quella questa?

–         Non si dice quella questa, si dice questa e basta.

–         Non vede quella.

–         Non si vede perché i lampioni sono rotti, bisogna arrivare alla fine della strada e fare la curva a sinistra.

–         Perché tu non detto?

–        Io? Ma come io? E voi non me lo potevate chiedere prima?

–         Sempre chiediamo ma tu sempre guardi terra.

Lo spavento si mischia alla collera donandomi energie insperate. Riesco pure ad alzare la voce.

– Ma giusto a me che stavo correndo? A me con la cuffiette? Non glielo potevate chiedere a un altro, a uno che passava, a uno che vi sentiva?

–         Qua solo macchine. Macchine e tu che guardi terra.

–         Io guardavo a terra apposta per non darvi la macchina.

–         Eh?

–         Niente, lasciamo stare.

– Tu guardi terra? Guardi quella?

–         Quella cosa?

–         Quella tu perso, perso soldi? Perso telefono?

–         Non ho perso niente, a parte i dieci anni di vita che mi avete fatto perdere voi.

–         Allora tu scimunito, quella, sì?

–         Ecco, sì, tutti scimuniti siamo qua: io, Umberto e pure quella. Meno male che ci siete voi, guarda.

–         Dieci minuti e quella Umberto chiude! Tu muoviti, tu dai, tu forza corri quella, corriamo Umberto quella!

E corriamo all’Umberto I, forza, presto, che se per caso chiude, questi due in una notte fanno crepare di infarto tutto il quartiere.

Mario Fillioley