Foggia

In memoria di Colbi

Antonio Fiscarelli - 17 Marzo 2014

1010112_10202918930164983_770672404_n(1)È con profonda sofferenza e tristezza che mi dispongo a ricordare Lassina Coulibaly, alias Colbi, deceduto la notte dell’11 marzo 2014, presso gli Ospedali Riuniti di Foggia.

Nato nel 1966 a Treichville, frazione della capitale ivoriana Abdijan, arrivato in Italia almeno 20 anni, ha lavorato per anni nelle campagne. Colbi è stato tra i più attivi protagonisti nella lotta per i diritti umani nella provincia di Foggia. Ha collaborato con associazioni e istituzioni, era parte della consulta immigrazione Regionale e recentemente aveva contribuito a fondare l’associazione Africa United di cui era presidente. Non è facile pensare a lui, oggi, senza associarlo alla storia dello sfruttamento degli immigrati in questo territorio. Tutti quelli che hanno conosciuto Colbi sanno che senza il suo impegno radicale, oggi saremmo ancora molto più in ritardo su queste questioni.

Ho conosciuto Colbi circa quindici anni fa. Abitava a Foggia, in una casa in via Giuseppe Rosati, nel bel mezzo dell’omonimo mercato ortofrutticolo. Ricordo vividamente quel primo incontro, nel caos e nelle grida dei commercianti. Era con sua moglie Patricia e la loro neonata bambina. La prima famiglia meticcia che ho incontrato da queste parti. Ci stringemmo la mano e cominciammo a parlare come se ci conoscessimo da sempre. Ricordo perfettamente l’argomento della nostra conversazione: la condizione degli immigrati nei vari ghetti sparsi nelle campagne della provincia di Foggia ed in particolare del Ghetto di Rignano. All’epoca una situazione del tutto sconosciuta all’opinione pubblica.

Studiavo a Torino e, come molti miei conterranei con parenti contadini, tornavo a Foggia l’estate per il lavoro nei campi e la raccolta dei pomodori. Erano anni in cui gli africani, tra i primi braccianti agricoli stranieri, insieme agli albanesi, giunti a Foggia nei primissimi anni ‘90, sebbene già in una precaria condizione abitativa, potevano godere di una paga equivalente a quella degli italiani. Una cassetta di Pomodoro poteva essere pagata da 1.000 a 1.300 lire, fino a 1.500, quando la stagione era buona. L’agricoltura era controllata dalla camorra napoletana. Gli autotrasportatori di pomodori, che partivano da Foggia verso il capoluogo partenopeo, erano costretti a pagare una tangente e per questo venivano scortati dalle forze dell’ordine. Era il periodo in cui la manodopera straniera cominciava a sostituire quella italiana. Lo ricordo come fosse oggi. Noi, gli italiani, eravamo abituati a raccogliere i pomodori la mattina. Se uno ci sapeva fare, poteva raccogliere anche 5 cassoni di pomodori e arrivare a guadagnare fino a 60-70 mila lire al giorno (certo, sempre senza contratto). Questo valeva anche per i primi lavoratori stagionali stranieri.

Quando arrivarono i primi africani, cominciarono a pernottare con le tende direttamente nei campi dei datori di lavoro. Per cui, potevano lavorare anche il pomeriggio, facendo il doppio di noi. Allora sì, che potevano farle girare ai braccianti autoctoni! Ma sappiamo bene, come sono andate a finire le cose: gli italiani si sono defilati dal lavoro nei campi man mano che le paghe diminuivano e gli immigrati venivano gradualmente schiavizzati. Ora, molti italiani continuano a essere sfruttati prevalentemente nei lavori urbani, mentre i migranti prevalentemente nell’agricoltura.

Molti italiani e migranti condividono, oltre alle problematiche del lavoro, anche quelle dell’emergenza abitativa, della formazione, dell’educazione, di una carenza totale di politiche sociali adeguate ai bisogni fondamentali della persona. Su questo con Colbi ci si poteva capire. Eravamo entrambi preoccupati dei conflitti latenti tra migranti e italiani, soprattutto nella zona di Borgo Mezzanone. Avevamo uno scambio molto preciso al riguardo. Lui mi raccontava storie di persone che vivevano nelle campagne, di famiglie intere con bambini in varie località nascoste nel Tavoliere, che poi andammo a visitare negli anni: Palmoli, Ghetto di Rignano (che all’epoca era distribuito su varie aree), Cicerone, Ortanova, Stornara, e altri piccoli insediamenti meno identificabili nel vasto Tavoliere; e io gli raccontavo storie di famiglie italiane dei quartieri-ghetto di Foggia: quartieri Settecenteschi, bidonville a fianco al Tribunale, il Parco degli Ulivi, ecc…

Non ho mai visto Colbi inattivo nelle sue preoccupazioni e angosce: ogni giorno che ci siamo incontrati o sentiti per telefono, in circa vent’anni di conoscenza, abbiamo sempre e solo parlato di questioni sociali. Ha lavorato con diverse associazioni e negli ultimi anni aveva preso un incarico come mediatore per il ministero degli Interni in Sicilia. Abbiamo fatto molti percorsi insieme. Colbi era quel tipo di attivista che si mobilitava spontaneamente per le cause più urgenti, lavorava nel sommerso e, bisogna dirlo, senza preoccuparsi di attirare i riflettori su di sé. Aveva tentato più volte di costruire rete tra migranti e italiani, per fare emergere quelle situazioni disumane che una volta erano definite «prigioni invisibili» tuttora esistenti, in moltissime parti di Italia. Aveva capito una cosa essenziale dell’Italia, o almeno della provincia di Foggia: che le problematiche concernenti le politiche dell’immigrazione non riguardano semplicemente e soltanto gli immigrati, ma anche gli italiani, che le condizioni di entrambi sono radicalmente vincolate alla questione del «lavoro», che i modi di sfruttamento della manodopera straniera ricalca modi già noti agli autoctoni. Qui almeno, nella provincia di Foggia, che Colbi conosceva bene, si può dire che, nel tempo, gli aguzzini vari si siano allenati prima sugli italiani e poi abbiano raffinato le loro pratiche perverse nei confronti degli immigrati. Era questo che condividevo principalmente con lui: dobbiamo pensare al caporalato e allo schiavismo di oggi, perpetrato sui migranti, come la conseguenza logica dello schiavismo di ieri, perpetrato sugli italiani. Sognavamo perciò di mettere su un unico «movimento di liberazione» costituito da migranti e italiani, un movimento di rivendicazione di «tutti i diritti umani», a partire dalla questione del lavoro.

Negli ultimi tempi le condizioni di Colbi si sono aggravate, ma tutte le volte che l’ho sentito per telefono, non faceva che ripetermi che ci dovevamo incontrare per dare continuità al nostro sogno. Poco prima della manifestazione del primo marzo scorso, che chiamava appunto alla collaborazione tra migranti e italiani, l’ho chiamato per dirgli che quel sogno è sempre più vicino. Oggi pomeriggio, intorno al suo corpo inerte ed avvolto in un lenzuolo bianco, si sono raccolte tantissime persone, africane e italiane, amici che hanno condiviso con lui gioie e dolori, e ho avuto come l’impressione che tutte fossero parte di questo sogno. Ora, nel vuoto che ci lascia, fra i tanti ricordi che affollano la mia mente in questo momento, pensando a lui, a sua moglie, ai suoi due bambini, a tutte le persone per cui Colbi si è sacrificato, a questo paese in cui lui ha vissuto la metà della sua vita, c’è un sola speranza che mi riempie: di portare avanti, con il ricordo di lui, questo sogno, senza esitazioni.

Antonio Fiscarelli