Teatro in carcere

Rock e flamenco a Rebibbia

Stefano Galieni - 31 Marzo 2014

teatro-e-carcere-2-420x393Entrare in carcere come ospite non è facile. Una trafila interminabile di richieste, di documenti da fornire, di timbri e formalità che non si esauriscono neanche lì, quando sei davanti al portone. Il 27 marzo, dal 1961, per l’Unesco è la Giornata Mondiale del Teatro. Quest’anno, per la prima volta, in Italia è divenuta anche la Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, un’occasione per rompere, anche se solo per poche ore, il confine che separa la vita di chi è dentro da quella di chi è fuori.

Ad organizzare molti eventi un coordinamento che si è costituito a tale scopo e che ha trovato almeno il sostegno del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione Penitenziaria. Nel carcere di Marassi, a Genova, i detenuti hanno messo in scena l’Amleto, in altri istituti si sono tenuti comunque momenti di socializzazione legati all’esistenza di un palco e di attori, a Roma, nella sezione femminile del Carcere di Rebibbia, si è realizzata una esperienza estremamente coinvolgente. Due gruppi rock, Tre che vedono il Re e Le Mura, un gruppo di 4 ballerine di flamenco, El Mirabras di Clara Berna, hanno dato vita a due ore di gioia pura nel teatrino dell’istituto, in grado di contenere un centinaio di persone. E chi scrive ha potuto condivdere l’esperienza.

Lasciati negli armadietti i “pericolosissimi” telefoni cellulari, le penne con l’anima di metallo, le chiavi ed ogni altro oggetto pericoloso o ritenuto potenzialmente inadeguato alla struttura, si attraversano corridoi e cancelli, rumori di chiavi e scale, sguardi a tratti infastiditi di chi vede interrotta una routine consolidata. Il teatro ha un bel palco dal sipario rosso, un centinaio i posti a sedere e una bellezza essenziale. Prima di salire, davanti al bar riservato al personale del penitenziario, era stata fatta una raccomandazione: «Se avete bisogno dei servizi igienici usate quelli esterni. Dovete capirci ma nel teatro non ne possiamo tenere». La sala resta vuota per almeno mezz’ora, poi a piccoli gruppi, arrivano le detenute. Molte sono giovanissime, usciranno presto perché accusate di piccoli reati, furtarelli o spaccio di sostanze leggere, alcune, più anziane, sono abituate al carcere, hanno l’aria più sicura e dominante, si siedono con fierezza ai posti migliori e attendono l’inizio dello spettacolo. Molti i volti giovani – l’età media è intorno ai 25 anni – in gran parte non hanno la cittadinanza italiana. Sono rom, provenienti da diversi paesi, rumene, latinoamericane, c’è qualche ragazza che viene dal Nord Africa.

Come in molte carceri è alta la percentuale di chi, da troppo tempo, è ancora in attesa di giudizio. Molte rischiano alla fine della pena il rimpatrio o il trattenimento in un Cie, ma in questa giornata mostrano una sfrontata allegria. E quando la musica allegra e coinvolgente dei Tre che vedono il Re inizia a riempire la sala, quando il front man si scatena con freschezza ed esuberanza, reagiscono con gioia e partecipazione. Fan in tutto e per tutto che seguono il ritmo, accennano passi di danza, interrompono con applausi e grida di apprezzamento. Il cantante, dai capelli che sembrano attraversati da corrente elettrica, salta come un folletto e viene immediatamente ribattezzato ” lo schizzato”, si ride e ci si spella le mani. Una festa che continua anche quando sale sul palco il secondo gruppo, Le Mura, musica più metallica e look da anni Settanta. Un rock duro che fa scatenare soprattutto le giovanissime, attimi di leggera tensione perché c’è chi vorrebbe parlare con i musicisti e il regolamento carcerario lo vieta, ma la musica ha il sopravvento e il vocalist del gruppo trova il tempo di strappare un lungo applauso urlando: «Qui dentro, fra di voi, ho trovato più stile di quanto ne veda fuori».

Il tempo scorre e in breve il palco si svuota degli strumenti per lasciare il posto alle quattro danzatrici. Il fascino e l’eleganza di una musica antica e meticcia irrompono e creano per un attimo silenzio irreale, eleganza nelle gambe e negli sguardi, il fruscio dei ventagli, ma accade anche altro. Accade che una donna, colpita nel profondo da sonorità che forse la riportano ad un passato intimo, inizi a piangere sommessamente. Con delicatezza le altre compagne le fanno spazio perché possa vedere meglio la danza, con altrettanta semplicità le donne di Punto D a Rebibbia Femminile, l’associazione che ha promosso materialmente l’evento, compiono lo stesso gesto. Prevale una connessione di sentimenti che lascia tracce.

«Volevamo una giornata di spettacolo – recita il testo del loro progetto – Ma anche di incontro e di confronto, nell’ambito del processo di sensibilizzazione e reinserimento sociale delle categorie fragili, che Punto D sta portando avanti in diversi contesti del territorio. In quest’ottica abbiamo ritenuto necessario avviare anche presso il carcere femminile di Roma un percorso con le donne recluse, che sia in linea con quanto l’associazione promuove Oltre le mura. Questo perché pensiamo che l’integrazione non debba avere né confini, né muri». Ma a passare oltre le mura sono stati il 27 marzo in tanti, dalle ricercatrici del Dipartimento di Scienze Politiche (facoltà di Scienze del servizio sociale) dell’Unità Federico Secondo di Napoli, all’Associazione Giuristi Democratici, l’Associazione Il Viandante, L’Asvi Managment School, La Cooperativa Primo Sole, L’Associazione Romana Tassisti, L’istituto Per La Prevenzione Del Disagio Minorile e ovviamente Il Corriere delle Migrazioni.

Si esce dal teatro e dal carcere con i saluti accennati delle detenute. Sguardi di ringraziamento, sorrisi, cenni con la mano in cui si mescolano calore e tristezza, volti induriti e contemporaneamente teneri, occhi vividi di chi comunica un caldo senso di complicità e di calore restituito. Non è facile uscire indifferenti e tornare a cielo aperto mentre dietro le porte e i cancelli si chiudono; musicisti e danzatrici si guardano intorno con aria smarrita e turbata. La consigliera regionale Marta Bonafoni, che ha voluto con determinazione contribuire a questa giornata, non nasconde la tristezza provata: «La prima cosa che ho voluto fare una volta eletta è stata quella di entrare in carcere e intendo continuare a farlo, perché credo che, soprattutto per le donne detenute, possa essere importante sentirsi minimamente considerate».

Stefano Galieni