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A proposito di aggressioni razziste

Sergio Bontempelli - 6 Maggio 2014

 

pisa_zakir L’omicidio di un bengalese a Pisa non è una delle “classiche” aggressioni razziste che abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni. Eppure il razzismo c’entra. Vediamo perché.

È la notte del 13 aprile, siamo a Pisa. Zakir Hossain, un immigrato del Bangladesh, ha finito di lavorare al ristorante indiano “Tanduri”, nella centralissima Piazza Gambacorti (che tutti chiamano “Piazza la Pera”, per via di un buffo reperto etrusco a forma, appunto, di pera). Zakir fa il cameriere, ed esce tardi dal lavoro: qualche volta si ferma a chiacchierare coi colleghi e finisce per fare – letteralmente – le ore piccole. Quella del 13 aprile è una notte come le altre, ed è molto tardi quando Zakir si incammina verso casa.

Piazza La Pera è vicina a Corso Italia, vero e proprio “cuore pulsante” della città. È la strada dello shopping, dello “struscio” pomeridiano, ma anche degli uffici pubblici e delle banche: poi, la sera, diventa uno dei centri della “movida”. Quando Zakir raggiunge “il Corso”, però, è notte fonda e non c’è più nessuno in giro. Tutto è tranquillo e silenzioso. All’improvviso, come dal nulla, spuntano tre individui: sembrano ubriachi, e uno di loro si rivolge con fare minaccioso proprio a Zakir. I testimoni assistono ad uno strano alterco: lo sconosciuto urla, Zakir rimane in silenzio. Poi parte un pugno: il giovane bengalese cade a terra. Viene trasportato d’urgenza all’Ospedale, dove muore qualche ora dopo.

Un delitto a sfondo “razziale”?
Il delitto scuote dal torpore la piccola città toscana. Anzitutto, perché si tratta di un evento senza precedenti, almeno da queste parti. Poi perché è avvenuto in pieno centro, in una zona di solito tranquilla, e comunque controllata dalle telecamere. Chi ha commesso l’omicidio, e perché? La nazionalità della vittima ha a che fare con il movente del gesto? Detto in altri termini, possiamo parlare di una violenza a sfondo razziale?

Riuniti in assemblea all’indomani dell’evento, i bengalesi non hanno dubbi: in città si respira da tempo un clima ostile contro gli immigrati. E ad esserne colpiti sono soprattutto loro, gli stranieri che vengono dal Bangladesh: che gestiscono minimarket e rivendite di kebab, e che per questo sono oggetto di invidie e risentimenti da parte dei commercianti “autoctoni”. Insomma, c’è un clima negativo, che certo non è la “causa” dell’omicidio, ma che può aver influito sulle motivazioni dell’assassino.

Passano alcune ore e gli inquirenti scoprono che a sferrare il colpo mortale è stato un cittadino tunisino, Hamza Hamrouni. L’omicidio, quindi, non può avere motivazioni razziste: così almeno dice il Sindaco, Marco Filippeschi, durante la manifestazione di solidarietà convocata dalla Comunità Bengalese. Ma le cose stanno davvero così?

Un omicidio “insolito”
Su un punto ha ragione il primo cittadino: quella subita da Zakir non è un’aggressione razzista “classica”. Quando pensiamo alla violenza a sfondo razziale, ci riferiamo infatti a un “copione” standard, in cui gli attori hanno ruoli ben definiti:  l’aggressore è – di solito – un italiano “purosangue”, magari imbevuto di idee e sentimenti xenofobi; la vittima è uno straniero marginale, escluso, in genere povero e poco inserito nella società di accoglienza.

L’omicidio di Jerry Essan Masslo, nel lontano 1989, è per certi versi il “prototipo” di queste violenze. Masslo era un giovane sudafricano che aveva chiesto asilo politico in Italia: per guadagnarsi da vivere era finito a fare il bracciante a Villa Literno. Viveva in una baracca fatiscente, lavorava quindici ore al giorno ed era pagato una miseria: era un escluso, e in quanto escluso fu aggredito e ucciso.
Per venire ad eventi più recenti, anche la strage di Firenze del 2011 segue un copione, diciamo così, “classico”. L’aggressore è un italiano di estrema destra, che pensa di “farsi giustizia” (le virgolette sono d’obbligo) irrompendo in una piazza e sparando ai venditori ambulanti senegalesi. Le vittime sono, appunto, dei venditori ambulanti: immigrati poveri, marginali, e (di nuovo) “esclusi”.

Ecco, il delitto di Pisa non segue questo copione. Zakir non è povero né “escluso”. Certo, non naviga nell’oro e non lo si può definire “ricco”: ma ha un permesso di soggiorno, vive in un’abitazione dignitosa e lavora regolarmente. Quando siamo andati in Piazza La Pera, a parlare con gli esercenti della zona, molti ci hanno detto: “Zakir era uno di noi”. «Per me non era nemmeno un bengalese – ci ha spiegato il titolare di un negozio – lavorava qui, e non l’ho mai percepito come uno straniero».

Anche l’aggressore non rientra nelle categorie rigide “noi” (gli “autoctoni”) / “loro” (gli immigrati). È tunisino, ma abita in provincia di Pisa da quando era adolescente, e ha una famiglia mista: la madre, tunisina anche lei, si è sposata in seconde nozze con un italiano, che ha rappresentato un “secondo padre” per il ragazzo. Hamza frequenta un circolo Arci e una palestra di pugilato, e ha amici italiani con cui esce la sera a “far baldoria”.

Tutto questo è, forse, un segno dei tempi. L’immigrazione si è ormai stabilizzata, e gli “stranieri” di ieri si sono inseriti nella società, a volte si sono “mescolati” con gli italiani. Il copione dell’«indigeno» che aggredisce «l’altro» funziona sempre meno…
Ciò significa forse che il razzismo è scomparso, e che aggressioni di questo tipo non possono più essere ricondotte ad un clima xenofobo? Ecco, qui le cose si fanno complesse, e bisogna stare attenti a non semplificarle troppo. Vediamo meglio.

Nuove vittime…
Partiamo dalla vittima: un bengalese. I migranti del Bangladesh, a Pisa, sono ben “integrati” – come si usa dire – ma occupano un ruolo preciso nel mercato del lavoro. Sono titolari di minimarket e kebab, e gestiscono un segmento definito del commercio al dettaglio: quello dei negozi aperti a tutte le ore, che vendono a prezzi stracciati o che propongono una ristorazione economica e veloce. È difficile – per non dire impossibile – trovare un bengalese che lavora in una fabbrica o in un ufficio, o che fa l’infermiere in Ospedale. Una delle caratteristiche del razzismo è proprio questa: gruppi identificati in base al colore della pelle, alla (presunta) “cultura” di appartenenza, o al paese di origine, devono “stare al loro posto”. Possono essere accettati e persino guardati con simpatia, a patto che restino nei confini loro assegnati.

La collocazione sociale dei bengalesi li espone al rischio di diventare un “gruppo target”. I kebab e i minimarket, in effetti, sono oggetto di diffusi risentimenti. In primo luogo, ci sono i commercianti “autoctoni”, che temono la concorrenza di negozi aperti a tutte le ore: proprio la sezione locale di Confcommercio ha chiesto recentemente di bloccare il “proliferare di kebab” in città. E poi, un’attività aperta la sera fino a tarda ora attira una clientela “di strada”, fatta di clochard e senza fissa dimora: persone che, per la loro “visibilità”, rischiano di compromettere “l’immagine” di un negozio, e che per questo sono viste con sospetto e diffidenza dai titolari degli esercizi. In zona stazione, sono frequenti le risse tra commercianti bengalesi e clienti definiti come “balordi”. E poiché questi ultimi, a Pisa, sono spesso tunisini, i conflitti assumono una connotazione “etnica”: Bangladesh contro Tunisia, Asia contro Nordafrica.

… e nuovi aggressori
Da questo punto di vista, è significativo che l’aggressore sia proprio un tunisino. Ma, anche qui, siamo di fronte a un migrante “particolare”: non un “estraneo” appena arrivato, che non padroneggia la lingua e che vive solo tra connazionali. Hamza – lo abbiamo visto – frequenta coetanei italiani, e quando ha ucciso Zakir era accompagnato dai suoi amici “autoctoni”. Una banda “mista” e “meticcia”, che non per questo è necessariamente immune dal razzismo: al contrario, nelle sue scorribande prende di mira un immigrato ben identificabile, appartenente al “gruppo-target” dei bengalesi.

Infine, per completare il quadro, bisogna far cenno anche alla reazione della cittadinanza. Da un lato si sono registrate diffuse manifestazioni di solidarietà alla vittima: quasi tutti i commercianti di Piazza La Pera, ad esempio, hanno chiuso i loro negozi per una giornata in segno di lutto (un fatto tutt’altro che scontato, da queste parti).

Dall’altro lato, la tragedia ha attivato le classiche reazioni “securitarie”: la richiesta è quella di avere più telecamere, più controlli di polizia, più espulsioni di immigrati “indesiderabili” (e magari anche meno tunisini in giro per le strade…). Ma l’elemento nuovo è che queste rivendicazioni sono fatte proprie anche dai rappresentanti dei bengalesi: al classico conflitto italiani contro immigrati si è dunque sostituita una contrapposizione più articolata, dove diversi “gruppi-target” possono trovarsi su posizioni diverse e opposte. Un po’ come gli Stati Uniti di un secolo fa, dove erano frequenti gli scontri tra neri e immigrati italiani (o irlandesi).

Il delitto di Pisa, insomma, potrebbe far emergere una realtà nuova: un’Italia ormai compiutamente “meticcia”, dove gli “immigrati” di ieri stanno diventando i “cittadini” di oggi (e, speriamo, di domani). Ma dove, probabilmente, il razzismo non scompare affatto: cambia volto e natura, e al tempo stesso pervade profondamente la società.

Sergio Bontempelli