Scritture meticce

Roma negata

Daniele Barbieri - 17 Giugno 2014

roma negataImpossibile immaginare che oggi nella capitale tedesca siano in bella mostra gli antichi simboli del Terzo Reich o che in Germania si spenda denaro pubblico per dedicare un sacrario a qualche massacratore nazista. Nell’Italia democratica invece accade. Con stupore prima che con rabbia Roma negata: Percorsi neocoloniali nella città (Ediesse: 160 pagine e 13 fotografie per 13 euro) ci ricorda che non abbiamo avuto il coraggio di fare i conti con la nostra storia.
Siamo differenti persino nel guardare le targhe o i monumenti. C’è chi, ad esempio, si chiede perché una via o una piazza ha proprio quel nome e chi (assai più) non mostra interesse. Ci sono persone che passando in via Cola di Rienzo (chissà chi era) a Roma non notano il busto che ricorda Totò e tanto meno la targaccia fascista sull’altro lato del marciapiede, mentre altre persone conoscono le storie dentro molti angoli della città.
Igiaba Scego ama Roma che più non si può: «il mio ombelico e quello del mondo, forse dell’intero universo». Però in questo libro inizia a camminare nella capitale spinta da un dolore che si nutre di assenze, presenze, ignoranze e rimossi (psico-analitici e storici). I piedi di Igiaba vanno in piazza di Porta Capena a guardare due targhe. La prima è «In ricordo delle vittime della strage dell’11 settembre 2001». La seconda è una frase di Georges Santayana: «Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo». Manca però in quella piazza l’obelisco di Axum e da questa assenza, dalla smemoratezza che l’accompagna Igiaba Scego comincia a tessere la sua tela.
Dopo piazza di Porta Capena i passi della scrittrice vanno verso la periferia, via dell’Acqua bulicante. Sembra che la nostra guida si perda nei film di «Sissi l’imperatrice» ma in realtà ci guida con fermezza verso l’ex cinema Impero, quello che campeggia anche in copertina, e le molte vicende che lì si intrecciano. Storie del passato e dell’ultimo 3 ottobre (ricordate? 369 vittime a Lampedusa, quasi tutte dall’Eritrea, un’ex colonia italiana… per chi ne conserva memoria) ma anche del futuro perché quell’ex cinema potrebbe diventare un luogo di socialità, di incontro nella Roma sempre più meticcia.
Prima di riprendere il viaggio 13 fotografie, molto belle, di Rino Bianchi. Ne manca una però che era stata pensata, discussa con entusiasmo e poi bocciata. Vi svelerò l’idea, ma tacerò il motivo per cui non è stata realizzata. «Questo libro si doveva concludere con una foto che non siamo riusciti a fare. La foto del balcone di piazza Venezia, il luogo occupato dal corpo di Benito Mussolini in 20 lunghi anni di dittatura fascista. La nostra prima idea era molto suggestiva. Avevamo pensato che da quel balcone dovevano affacciarsi richiedenti asilo somali, eritrei, etiopi. Uomini e donne sorridenti che rivendicavano quel passato in comune con un’Italia sorda e assente». Provate a indovinare perché quella foto non c’è; poi magari riflettete se quella scelta (di non farla) spiegata nelle «conclusioni» vi convince; a me sì.
Dopo le foto il libro si incammina verso il cuore di Roma, «piazza dei Cinquecento», ovvero la stazione Termini. Ho vissuto i primi 40 anni della mia vita a Roma senza chiedermi chi fossero quei 500; l’ho scoperto da poco, con stupore. La piazza è dedicata ai 500 (in realtà 430) soldati italiani che morirono nella battaglia di Dogali del 26 gennaio 1887. Igiaba Scego ci spiega cosa accadde lì, poi si rimette in cammino incrociando Carducci, Pascoli, D’Annunzio, processioni, Giulietta Masina (in Le notti di Cabiria), le persone migranti (spesso delle ex colonie italiane) che affollano questi luoghi, citando il fumetto Volto nascosto e ricordando un piccolo, grande uomo che fu nemico e vittima dell’Italia fascista, ma che nel novembre 1970 fu accolto a Roma con un misto di rispetto e smemoratezza: Hailé Selassié.
I penultimi passi di Igiaba Scego ci portano verso il ponte Amedeo d’Aosta, davvero brutto quanto inutilmente pesante: come sempre saltando avanti e indietro nel tempo, l’autrice ci racconta storie – personali e collettive – scordate o meglio rimosse perché, come insegna la psicoanalisi, se non vogliamo fare i conti con un dolore o con un problema… lo mettiamo nel “dimenticatoio”.
Ci portano un po’ fuori Roma gli ultimi passi del libro; il capitolo si intitola «Affile, una vergogna nazionale». Qui si sono spesi soldi pubblici per un omaggio al boia Rodolfo Graziani. Se abitualmente leggete Corriere delle migrazioni sapete cosa è accaduto – e accade – ad Affile. Ma in tante/i non sanno. In questo capitolo si affaccia anche un’idea molto bella (di Serena Fiorletta): «fare un museo del fascismo. Un museo che spieghi, contestualizzi; non certo un museo agiografico»; la sede ideale sarebbe proprio Palazzo Venezia. Perché la frase di Georges Santayana è saggezza, è necessità, è urgenza. Tanto più nella Roma che è sempre più meticcia anche se tante/i fanno finta di non saperlo. Le ultime parole di Igiaba Scego sono: «Buona Italia a tutti e che la forza sia con noi».
Roma negata si chiude con una post-fazione (di Andrea Branchi) piena di notizie interessanti ma piuttosto confusa – è l’unico difetto di un libro riuscitissimo – e con i «titoli di coda» (un’utile bibliografia).
Fra tanti discorsi seri e tragici, Igiaba Scego infila anche alcune battute eccellenti e almeno una ve la riporto. A proposito dell’ossessione di Mussolini per Roma antica che lui immaginava tutta marmi, bighe e doghe è bene invece ricordare – come scrive l’autrice – che all’epoca Roma somigliava più a Rocky Horror Picture Show (spiegazione per chi avesse perso il film: un casino totale). Chi leggerà questo bel libro incrocerà anche un ambiguo Indro Montanelli, una rabbiosa Elvira Banotti, un riflessivo (o pentito?) Oscar Luigi Scalfaro, le canzoni di Pierangelo Bertoli e Gabriella Ferri, una bella definizione dei Wu Ming, molta Italietta ma anche una certa bell’Italia che c’era e per fortuna c’è.
Sarebbe bello se davvero gli spunti di questo libro diventassero la “guida”, o solo un primo spunto, per qualche “giro nella memoria di Roma” un po’ come nella Buenos Aires dello choccante Le irregolari di Massimo Carlotto, oppure nella logica con la quale l’associazione Todo Cambia anni fa “presentava” Milano alle persone migranti… e viceversa.
Aggiungo una notazione personale, che è evidentemente scaturita da alcuni passaggi del libro di Igiaba Scego: io vivo da molti anni a Imola, città che ha pagato un prezzo antifascista molto alto, e anche qui purtroppo resistono alcuni simboli orribili, a partire da tre enormi fasci e altre iconografie del losco ventennio, in centro, a pochi metri da piazza Gramsci e da piazza Matteotti. Buttarli giù o ri-contestualizzarli? La terza via (far finta di nulla) non mi pare intelligente e rispettosa di chi è morto per liberarci dal nazifascismo.

Daniele Barbieri