Africa

Congo, sulle tracce della Storia

Gabriella Grasso - 11 Gennaio 2015

antique-map-congo-africa-29539011Scrivere un libro godibile di 388 pagine sulla storia della Repubblica Democratica del Congo non era un’impresa dall’esito scontato. Persino in Belgio, che è la sua patria e soprattutto è l’ex Paese colonizzatore dello stato africano, David Van Reybrouck non si aspettava il successo che è arrivato con Congo (Feltrinelli, 25 euro, traduzione di Franco Paris). Merito di una scrittura intensa, del coinvolgimento evidente dell’autore e dell’incredibile lavoro di documentazione. Il libro inizia ricordando come in Africa sia iniziata l’avventura del genere umano e termina raccontando il Congo oggi. Passando attraverso la tratta degli schiavi, il sanguinoso periodo in cui il Paese era proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II, l’epoca coloniale, l’indipendenza nel 1960 (ottenuta anche grazie all’impegno di Patrice Lumumba, la cui figura però l’autore ridimensiona notevolmente), la dittatura di Mobutu.

Per scrivere ha compiuto 12 viaggi nel Paese africano: come è stato accolto?
«Sorprendentemente bene. All’inizio avevo quasi paura a dichiarare la mia nazionalità, ma in realtà molti congolesi erano contenti di incontrare un belga. Paradossalmente le nuove generazioni non sono arrabbiate perché li abbiamo colonizzati, piuttosto perché li abbiamo abbandonati. Un ragazzo di 18 anni mi ha detto: “Monsieur David, questa nostra indipendenza, quanto durerà? È terribile, non la vogliamo”. Queste parole non rappresentano certo una approfondita analisi storica, ma rivelano il malessere diffuso nel Paese».
Sono molti i congolesi che emigrano?
«Sì, ma non più definitivamente. Quella odierna è una diaspora dinamica. I migranti sono i viaggiatori globali per eccellenza: vivono tra più paesi, mandano i soldi a casa, mantengono i contatti con la famiglia attraverso Skype. Moltissimi congolesi vengono in Belgio. Per loro Bruxelles è ancora un posto mitico: nella loro lingua si dice “poto”. Quando un padre può dire: “My son lives in Poto”, che significa in Belgio o in generale in Europa, allora è degno di rispetto. Oggi molti emigrano anche verso la Cina, specialmente a Guangzhou: così per dire che un oggetto (o una persona) è di scarso valore, ormai si dice che è “nguanzu”».
Di tutte le epoche che il Congo ha vissuto, in quale la relazione tra il Paese e l’Europa è stata più drammatica?
«L’epoca di re Leopoldo II (dal 1885 al 1908, ndr) è stata molto sanguinosa. Ma sarebbe interessante fare un parallelo tra i morti di quei 23 anni di dominio reale e quelli degli ultimi 20: si parla di 5/6 milioni, anche se fare una stima è difficile. Le atrocità che si stanno perpetrando oggi sono anche peggiori di quelle che avevano luogo in epoca coloniale: negli anni Cinquanta, per esempio, la violenza era più che altro simbolica, verbale, di semi-apartheid. Non fisica».
L’anno scorso la giornalista congolese Chouchou Namegabe al Festival di Internazionale a Ferrara ha denunciato la grave situazione nella zona del Kivu, dove lo stupro viene usato come arma dai signori della guerra che vogliono garantirsi il controllo delle miniere di coltan. Si tratta ancora una volta di un conflitto in cui l’occidente ha responsabilità importanti?
«La realtà è molto più complessa. Se in epoca coloniale le donne non potevano studiare e nei primi anni della dittatura di Mobutu erano ancora gli uomini a guadagnare, durante la crisi economica degli anni Ottanta sono diventate all’improvviso economicamente importanti e si sono emancipate. Penso che l’uso dello stupro come arma abbia come intenzione anche quella di rimettere le donne al posto che avevano tradizionalmente. Ne ho intervistate molte, anche se ho inserito una sola testimonianza, quella di una donna che non ha solo subìto violenza, ma è stata anche rifiutata dal marito e dalla famiglia: colpendo lei è stato distrutto un intero nucleo familiare. Però sarebbe sbagliato ritenere che si tratti solo di un conflitto tribale o causato dalla presenza di risorse naturali: la vera questione è l’accesso alla terra in un periodo di sovrappopolazione. Se si guarda la mappa della densità abitativa in Africa si scorgono quattro punti “affollati”: il Cairo, Lagos, Kinshasa/Brazzaville, Johannesburg. Nel mezzo ci sono come delle “nuvole”, le regioni dei Grandi Laghi, il Ruanda, il Burundi, l’Uganda, il Congo orientale: per la prima volta nella storia dell’umanità esiste una situazione di sovrappopolazione in zone rurali. Gli esseri umani non sanno gestire una situazione così. Si può vivere in tanti in città come Tokyo, dove ogni giorno arriva molto cibo. Così la competizione per la terra ha esacerbato le tensioni etniche, alle quali si è aggiunta poi la questione del controllo delle miniere. Ormai non si tratta più di una guerra, ma di un’economia militarizzata: quando lo Stato non è capace di monopolizzare la violenza e se non si occupa di te, lo fai tu e per farlo ti procuri un kalashnikov. Insomma: non tutto il male dell’Africa è conseguenza solo delle azioni degli occidentali. E in ogni caso i giocatori economici ormai sono cinesi, indiani: si tratta di capitalismo globale».
Però l’Occidente di responsabilità verso l’Africa ne ha…
«C’è qualcosa di pigro nel senso di colpa, perché ti induce a pensare che basti quello per evitare l’impegno, l’incontro con l’altro. Se guardiamo alla storia, vediamo che la schiavitù in Africa esisteva da prima dell’arrivo dei bianchi. E anche dopo il loro arrivo, le élite locali hanno avuto un ruolo fondamentale nella tratta. Bisogna essere profondamente consapevoli del fatto che per secoli sono stati portati via dall’Africa gli uomini migliori e questo ha avuto un impatto profondissimo sul tessuto sociale, ha significato uccidere una società. Quindi non voglio giustificare l’Europa: però difendo il diritto alla realtà storica. Il senso di colpa post-coloniale è ombelicale: finché la nostra relazione con l’Africa si baserà sul passato, continueremo a guardare noi stessi. Ai ragazzini del Congo e alle donne del Kivu non interessa che gli europei si sentano in colpa se poi non fanno niente per loro. Perché mentre noi ci guardiamo l’ombelico, i cinesi gli portano via il coltan e il rame e gli americani mandano lì i loro predicatori evangelici».
Ritiene che uno storico non debba prendere posizione quando esamina una questione?
«No, non lo credo. E infatti il mio libro è un lungo esercizio di empatia. Però non mi piacciono le prese di posizione facili: far vedere la complessità della storia è una forma di moralità più interessante che dividere il mondo in buoni e cattivi. Il miglior complimento che mi hanno fatto è dirmi che il mio libro aiuta a comprendere e amare Congo. Perché è vero, la mia è una dichiarazione d’amore a questo Paese. Non sopporto che se ne parli come di un posto esotico, come se non appartenesse al XXI secolo. Quello che accade oggi lì, per quanto estremo, è parte di questo secolo».

Gabriella Grasso