Letture meticce

Cristina Ali Farah, tra Roma e Mogadiscio

Gabriella Grasso - 30 Gennaio 2015
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Ritratto di Cristina Ali Farah

Nato in Somalia e arrivato da piccolo in Italia con i genitori, il diciottenne Yabar vive a Roma con la madre Zahara. Il padre è scomparso misteriosamente da anni e lui è cresciuto ascoltando le storie di zia Rosa (una donna italosomala che la madre considera una sorella) e giocando con sua figlia Sissi. Ma le domande sulla propria identità, e soprattutto sulla figura paterna, lo spingeranno a indagare sul passato del suo Paese di origine e della sua famiglia, portandolo non solo a scoprire molte verità, ma anche a diventare uomo. Yabar è il protagonista di Il comandante del fiume (66th and 2nd, euro 16), secondo romanzo di Ubah Cristina Ali Farah, bravissima scrittrice nata a Verona da madre italiana e padre somalo, cresciuta tra la Somalia e l’Italia.

Il protagonista Yabar è di pelle scura e parlando con Sissi, chiara come il padre italiano, dice «Il colore è quello che vedono gli altri, non quello che vedi o senti tu». Perché era importante per lei affrontare la questione del colore della pelle?
«Sissi e Yabar sono speculari: lei prova desiderio per le sue origini africane, che mitizza. Lui si confronta quotidianamente con la propria diversità. Ricordo di aver assistito a una discussione tra alcuni ragazzi della Rete G2: quelli di pelle scura dicevano che la loro situazione è più difficile perché, non potendosi mimetizzare, sono costretti a giustificare continuamente il loro essere italiani. Al contrario degli altri che devono gestire le proprie questioni identitarie, certo: ma non il rapporto con gli altri. Mi interessava mettere in evidenza la differenza tra questi due approcci».

Qualcuno ritiene che per i bambini “misti” possa essere utile avere degli spazi per stare tra loro e identificarsi con chi gli somiglia. Cosa ne pensa?
«Io sono cresciuta in Somalia frequentando spesso ambienti italosomali dove non ero percepita come diversa. Mio figlio Arun, invece, mi ha confessato che non avere, in Italia, persone con cui identificarsi gli ha reso le cose complicate. Ma io penso che creare ambienti “chiusi” dove i bambini uguali tra loro si frequentino sia pericoloso. Bisogna invece creare spazi, come l’asilo interculturale romano Celio Azzurro, dove si incontrano bimbi di ogni provenienza, anche italiani. L’idea che va trasmessa ai piccoli è che la diversità è normale e che ognuno è diverso a modo suo».

Però è importante potersi identificare con le diverse culture a cui si appartiene, no?
«Certo, altrimenti capita quello che succede a zia Rosa nel libro: essendole stata negata la sua parte somala, la mitizza e la cerca identificandosi con tutto ciò che proviene, genericamente, dal Continente Africano. Però studiando da mediatrice culturale e incontrando persone di ogni provenienza ho imparato che nei rapporti umani la nazionalità non c’entra nulla e puoi scegliere come amici persone molto diverse da te. È vero che se condividi la stessa cultura ti puoi incontrare con più facilità: ma ti puoi anche scontrare con più facilità».

Zahara ha eliminato dalla sua vita tutto ciò che le ricorda la Somalia. Però quando sfoglia un libro di immagini di Mogadiscio si emoziona. La nostalgia è più intesa per chi non può tornare a casa?
«Per me scrivere e parlare della guerra in Somalia e delle differenze tra i diversi clan è difficile, perché per quelli della mia generazione si tratta di una ferita aperta. Per noi la guerra ha costituito uno spartiacque: c’è un prima e un dopo. In verità quando vai in esilio il ritorno non è mai possibile, perché anche se torni non troverai mai quello che hai lasciato. Tuttavia, per noi somali questo è ancora più forte, perché il nostro Paese come lo conoscevamo non esiste più, non ci vivono più le stesse persone e non possiamo nemmeno illuderci che non sia così».

Un altro personaggio del libro, Ghiorghis, figlio di etiopi, si scontra con due punti di vista diversi. Un professore lo rimprovera quando lui dice di essere etiope perché, essendo nato in Italia, dovrebbe definirsi italiano. Un prete invece lo rimprovera quando si definisce italiano perché non dovrebbe rifiutare le proprie origini. Lui sembra sposare la prima posizione: si sente italiano perché a Roma ha i suoi legami.
«Avevo già ragionato sul tema delle relazioni nel mio libro Madre Piccola. Mi ero chiesta: cosa succede a una persona che perde tutte le coordinate a cui ha agganciato la propria vita? Come fa a ricrearsene una? E la mia risposta è: attraverso le relazioni. È creando dei legami che si riesce a mettere nuove radici».

Come vede la situazione degli afroitaliani?
«Mi pare che l’Italia non sia molto consapevole della loro esistenza. Eppure ci sono molti ragazzi la cui prima lingua è l’italiano, che poi magari emigrano e portano la loro italianità in altri Paesi. A Bruxelles, per esempio, vengono a lavorare molti ragazzi italiani e non tutti lo sono da generazioni».

Il papà di Rosa era un italiano fascista che, pur disprezzando i somali, si era sposato con una somala molto più giovane di lui. Perché ha voluto inserire questo elemento?
«Capitava spesso che gli italiani prendessero in moglie ragazze somale. Quando ero ragazzina incontravo i loro figli, perché frequentavano la scuola italiana come me. Ma io ero una rarità, perché a essere italiana era mia madre. Ho inserito questo elemento perché fa parte della storia della Somalia. La cosa incredibile è che la maggior parte dei ragazzi italosomali che conoscevo erano fascisti, e lo sono rimasti anche dopo essere venuti in Italia. Hanno assorbito il punto di vista dei padri. E io mi sono spesso domandata: com’è possibile? Chissà, forse in parte la loro scelta era influenzata dalla mentalità somala, piuttosto dura e maschilista: se tuo padre era somalo, allora lo eri considerato anche tu. Ma se a essere somala era tua madre, non era così automatico. Può darsi che questi ragazzi, sentendosi respinti dalla società nella quale erano nati, si siano avvicinati alle posizioni paterne. I processi di elaborazione dell’identità sono complessi».

In Italia c’è una comunità somala numerosa?
«C’era, ma si sta riducendo: chi può se ne va. Dopo l’inizio della guerra arrivavano tanti somali, perché per loro questo era un approdo naturale, e trovavano qui una comunità antica, di persone venute a studiare e mai tornate a casa. Ma l’Italia non gli ha dato grande appoggio. Così spesso sono ripartiti. E anche i “vecchi” ora tendono ad andarsene: un po’ per la crisi, un po’ perché non potendo tornare a casa scelgono Stati dove la diaspora è più numerosa, come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti».

Che strumenti culturali si possono fornire a ragazzini figli di migranti?
«Forse sono ingenua ma, ottimisticamente, penso che alla fine l’empatia superi ogni barriera culturale. Siamo esseri umani, in grado di relazionarci gli uni agli altri. Quando mi sono trasferita a Bruxelles non parlavo il francese e mi sentivo isolata. Ma poi c’è sempre un legame che si crea tra le persone. Al di là della lingua. E della provenienza».

Gabriella Grasso