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Parole che escludono

Sergio Bontempelli - 30 Gennaio 2015

cartello "divieto di sosta ai nomadi"Quando parlano di rom, gli enti pubblici “dimenticano” il linguaggio giuridico: scrivono in modo impreciso e alimentano i pregiudizi. I risultati di una ricerca

Può sembrare banale dirlo, ma non lo è affatto: il linguaggio giuridico è diverso da quello che usiamo tutti i giorni. Leggi, delibere e ordinanze devono – meglio: dovrebbero – essere scritte in un italiano chiaro, privo di ambiguità, con parole e frasi dal significato univoco (nei limiti del possibile, si intende): solo in questo modo si evitano interpretazioni contrastanti, che a loro volta possono dar spazio agli arbitri dei funzionari pubblici.

Per spiegarci meglio: la persona innamorata che dica «voglio vederti presto» farà felice il proprio partner. Ma se l’Ufficio del Comune promette che la vostra pratica sarà esaminata «presto», vi sentirete presi in giro: presto quando? che significa presto? E infatti le leggi non usano termini così generici: tanto per rimanere nell’esempio, la norma sui procedimenti amministrativi obbliga gli uffici pubblici a concludere le pratiche «entro trenta giorni». «Presto» è ambiguo, vuol dire tutto e non vuol dire nulla; «trenta giorni» è un termine chiaro, che garantisce il cittadino e lo tutela dagli abusi. Ovvio, no?

Gli esperti dicono che il linguaggio giuridico deve essere “rigido ed esplicito”: rigido – privo di ambiguità – nei significati delle parole, ed esplicito, cioè tale da lasciare poco spazio ai non detti, ai sottintesi, alle allusioni. Al contrario, il linguaggio “naturale” (quello che parliamo tutti i giorni) è “elastico” e “implicito”. Questa è – dovrebbe essere – la differenza tra la lingua dei giuristi e quella che usiamo sul tram, al bar o con gli amici.

Quando la burocrazia parla di rom e sinti
Quando parlano di rom e sinti, però, le amministrazioni pubbliche dimenticano le regole del “parlare giuridico”. Si esprimono con termini imprecisi, ambigui e – appunto – “elastici”: fanno allusioni, dicono e non dicono, saltano passaggi logici, si appoggiano a stereotipi di senso comune, alimentano e diffondono pregiudizi. A rivelarlo è una ricerca della Fondazione Michelucci di Firenze e del Centro Creaa dell’Università di Verona: che ha preso in esame 702 documenti, tutti prodotti dalle istituzioni, sia nazionali che locali. Sono state scandagliate leggi, regolamenti, piani, atti, risoluzioni e delibere: testi “ufficiali”, sempre riferiti a rom e sinti. E l’analisi di questa corposa documentazione ha riservato qualche sorpresa.

La lingua del disprezzo
In molti Comuni – spiega ad esempio Leonardo Piasere, uno dei coordinatori della ricerca – si smantellano gli insediamenti rom facendo appello all’«igiene pubblica». In quanto “pubblica”, però, l’igiene dovrebbe riguardare tutti, rom e non rom: e invece, leggendo le ordinanze di sgombero, si nota un frequente disinteresse per le condizioni di salute di chi vive nei campi. Anzi, spesso sono proprio loro, i cosiddetti “zingari”, a rappresentare la “minaccia”, il “problema igienico” da allontanare (nell’interesse, si intende, dei “cittadini”, che per definizione non possono essere rom…).

«Il rischio di contrarre malattie infettive dagli animali», spiega Piasere, «si chiama, in termini tecnici, zoonosi. Ecco, potremmo dire che in molte ordinanze si postula l’esistenza di una ziganosi: il “fattore di rischio” sono proprio loro, i cosiddetti “zigani”, cioè i rom e i sinti. Sono loro a dover essere allontanati, al fine di immunizzare la “società civile”…».

Gli insediamenti “informali” – quelli che la lingua della burocrazia chiama “abusivi” – sono spesso associati al “degrado”, “al deterioramento della vita urbana” e all’immancabile “insicurezza”. Lo rilevano, nei loro contributi, Giuseppe Faso e Virgilio Mosè Carrara Sutour. Si tratta di concetti vaghi, di difficile definizione: chi, e in base a quale criteri, decide che un insediamento “deteriora la vita urbana”? Se voglio oppormi allo sgombero, come faccio a dimostrare che la mia presenza non è un fattore di “degrado”, visto che la parola “degrado” è generica, ambigua, scivolosa?

La de-umanizzazione
Si ha quasi l’impressione che il “degrado” sia rappresentato, in realtà, dagli stessi rom: di nuovo, sono loro ad essere “il problema”. Se, nelle ordinanze sull’igiene, i (cosiddetti) “nomadi” sono descritti come “fattore di rischio”, qui compaiono come “portatori di degrado”. Animali nel primo caso (la “ziganosi”, dicevamo…), rifiuti nel secondo: rom e sinti non sono concepiti come esseri umani a pieno titolo.

La de-umanizzazione dei rom, del resto, ricorre spesso nella lingua burocratica, persino quando le amministrazioni sono impegnate in progetti di inclusione sociale. «In molti provvedimenti», osserva ancora Faso, «non si parla di accoglienza di persone, ma di “etnie rom”. Come se i diritti non fossero per individui e famiglie ma per l’etnia: un fantasma difficile da definire, ma comodo perché sostituisce l’impronunciabile razza». Non solo animali o quasi-animali, non solo rifiuti o quasi-rifiuti, ma anche razze differenti: gli “zingari” sono il paradigma delle non-persone.

Finalità ambigue…
Ci sono poi i testi contraddittori, che affermano una cosa e subito dopo la negano. Così, per esempio, un documento della Regione Toscana parla di «lotta all’esclusione sociale», e aggiunge: «tale da alleggerire la concentrazione di famiglie rom sul territorio». Come sarebbe a dire «tale da»? Se si avvia un percorso contro l’esclusione, si presuppone che si compiano azioni rivolte all’accoglienza: in italiano, il contrario di «esclusione» è, per l’appunto, «inclusione», cioè inserimento sociale. E l’obiettivo di «alleggerire» – quindi di mandare via i rom, come se fossero un peso – si sposa male con questa premessa…

«La verità», spiega Faso, «è che in questa apparente contraddizione c’è un non detto, che può essere riassunto così: “se bisogna combattere l’esclusione, e se i rom, stando vicini, rafforzano i meccanismi di auto-segregazione, allora bisogna fare in modo che non troppe famiglie rom stiano vicine”. Ma è un non detto, appunto, che infrange la regola di esplicitezza del linguaggio giuridico». E che attribuisce agli stessi rom la “colpa” della loro esclusione.

… e contratti farlocchi
La lingua delle amministrazioni pubbliche è fatta insomma di words which exclude, «parole che escludono»: una locuzione che non a caso è stata scelta come titolo della ricerca. Eppure, non si tratta solo di una questione di linguaggio: spesso, a “escludere” sono proprio gli strumenti operativi messi in campo dalle istituzioni.

Ne è un esempio il cosiddetto “contratto di accoglienza”, analizzato da Sabrina Tosi Cambini: si tratta di uno strumento molto diffuso, che molte amministrazioni locali impiegano nei percorsi di inclusione dei rom. Funziona più o meno così: a una famiglia inserita in un progetto – ad esempio, in un alloggio sociale – viene proposta la stipula di un “contratto”, che deve essere firmato dal capofamiglia e – congiuntamente – dal responsabile della pubblica amministrazione.

In apparenza, il contratto stabilisce diritti e doveri di entrambe le parti, in modo paritario. Di solito, l’ente pubblico si impegna a fornire l’alloggio, e a mettere a disposizione un servizio di accompagnamento (cioè un operatore incaricato di assistere il nucleo). Dal canto suo, la famiglia si impegna a «rispettare gli obiettivi del progetto»: vale a dire, a trovare un lavoro, e a rendersi economicamente autonoma. Il punto – spiega Tosi Cambini – è che le parti non sono affatto sullo stesso piano. L’ente pubblico ha risorse, soldi, potere. La famiglia rom vive in una condizione di marginalità, e difficilmente può “negoziare” le clausole proposte: se le vede imporre dall’alto, e deve accettarle se vuole uscire dal “campo nomadi” e mettere piede in una casa.

Non solo: con il “contratto”, la famiglia si impegna a perseguire obiettivi che, spesso, sono al di fuori delle proprie possibilità. Trovare un lavoro è difficile, e non solo per la crisi: è raro che una ditta assuma uno “zingaro”, ed è altrettanto raro che l’abitante di un “campo”, magari non più tanto giovane, riesca a trovare un impiego con le sue sole forze. Il fallimento del “percorso di integrazione” può però venire imputato alla stessa famiglia: «dovevano integrarsi, hanno firmato un contratto, non l’hanno rispettato…».

La lingua del Bar Sport
«A produrre discriminazione», diceva la studiosa Clelia Bartoli in un bel libro uscito due anni fa, «non è solo il contenuto delle norme, ma anche la loro cattiva qualità tecnica». La ricerca words which exclude è un po’ la conferma di questa tesi. L’esclusione sociale dei rom è prodotta anche da istituzioni che non parlano la lingua delle istituzioni. Da amministratori che non scrivono e non pensano da amministratori. E che preferiscono, per loro scelta, esprimersi come ci si esprime al Bar Sport…

Sergio Bontempelli

 

Leggi il testo della ricerca Word Which Exclude