Intervista

Taiye Selasi: «Cancellare le ferite»

Gabriella Grasso - 20 Novembre 2013

taiye-selasi-globe-and-mailTaiye Selasi è una statunitense di origini ghanesi (da parte di padre) e nigeriane (da parte di madre), nata a Londra e romana d’adozione, ha già fatto molto parlare di sé. Ammiratissima al Festivaletteratura di Mantova, ha iniziato da pochi giorni la sua esperienza come giurata al talent show letterario, Masterpiece (in onda su Rai 3). In questa intervista, però, prescindiamo del tutto dalla parentesi televisiva e parliamo di Africa, Stati Uniti, razzismo ed altri temi presi a spunto dal suo romanzo di esordio, La bellezza delle cose fragili (titolo originale Ghana must go). Pubblicato da Einaudi, è il bellissimo ritratto di una famiglia africana tra Usa e Ghana: ci sono il padre Kweku, la madre Fola, le figlie Taiwo e Sadie, i figli Kehinde e Olu…

Ci sono due scene nel libro che accosterei, perché sembrano raccontare una precisa condizione psicologica africana, legata alla postcolonizzazione. La prima è quella in cui la madre Fola, mentre cura il suo giardino, pensa all’indifferenza dei ghanesi  verso i loro fiori. L’altra è quella in cui la giovane Taiwo riflette sull’abitudine di molti di maltrattare i figli.
«Oltre a essere pediatra, mia madre è anche ortocultrice e coltiva bellissimi fiori tropicali che in Ghana crescono senza alcuno sforzo. Lei non si capacita di doverli spedire in Olanda, per venderli. Ci ho riflettuto e ho immaginato che, forse, i ghanesi non riescono a dare rilevanza a ciò che abbonda nelle loro terre, un po’ come succede agli italiani con i reperti archeologici… Per quanto riguarda l’aggressività nei confronti dei bambini, l’ho vista in molte famiglie nigeriane. Mia madre mi citava sempre un detto del suo Paese: “I bambini si devono vedere, non sentire”. E io mi sono sempre indignata davanti a questa mancanza di attenzione nei confronti dei figli. Ma tra queste due scene forse un nesso c’è, ed è profondo: la tragedia di persone che sono state de-umanizzate, in Africa così come nelle comunità afroamericane. Tra gli afroamericani la violenza domestica è spesso epidemica e deriva dall’eredità di violenza e oppressione della loro storia. Un lascito simile a quello della brutale colonizzazione britannica in Africa occidentale. Gli inglesi si sono insanguinati le mani: quel sangue è stato assorbito dai Paesi che hanno subìto il loro controllo e continua a scorrere sotto la superficie. Di tanto in tanto, emerge sotto forma di svalutazione di sé e violenza. Reazioni ereditate dal modo in cui si è stati trattati: che può diventare il modo di trattare se stessi e i propri figli».

Il padre Kweku perde il lavoro di chirurgo perché, in quanto nero, viene facilmente individuato come capro espiatorio per un incidente in sala operatoria. Potrebbe ancora succedere, negli Usa di Obama?
«Gli Usa del Presidente Obama sono anche quelli dell’omicidio di Trayvon Martin (il ragazzo afroamericano ucciso per la strada in Florida, in febbraio, ndr). Se la domanda è: viene ancora praticato il razzismo senza che il sistema sociale e culturale del Paese se ne occupi? Allora la risposta è inequivocabilmente: sì. Lo vediamo tutti i giorni in un’America in cui nessun repubblicano prende parte alla commemorazione della marcia di Washington, un ragazzo disarmato viene ucciso vicino casa e il suo assassino resta a piede libero… Ci sono molte ragioni per cui non vivo più lì e questa è una. Non ho alcuna intenzione di allevare figli con la pelle scura in un Paese che continua a dire ai neri che devono giustificare la propria esistenza e che la loro vita vale meno di quella di altri. Certo, ho lasciato NY anche perché non riuscivo a trovare la giusta concentrazione per finire il romanzo, ma già da tempo cercavo un posto dove metter su casa fuori dagli Usa. È dura vivere in un Paese, o meglio in un contesto socio politico, nel quale la pelle nera è ancora considerata, non da tutti, ma dalla cultura egemone, un segnale di inferiorità. Faccio un esempio: un nero e un bianco entrano in una stanza e l’istantanea convinzione di tutti è che il bianco sia sicuramente più competente, intelligente, istruito. Chiunque pensi che negli Usa non funzioni così, non è molto attento».

Il padre di Ling, la fidanzata cinese di Olu, fa un discorso molto duro sull’arretratezza dell’Africa. Perché ha scelto di far pronunciare quelle parole proprio a un immigrato asiatico?
«Non ho “scelto” un asiatico, ho solo dato voce a un personaggio che esprime le sue idee, che certo non rispecchiano quelle di tutti gli asiatici. Forse l’opinione del dottor Wei sarebbe stata meglio in bocca a un americano bianco? No, perché il motivo per cui prima parlavo di “cultura egemone” è proprio questo: sebbene immigrato, Wei vive negli Usa, pensa a se stesso come a un cittadino americano, vive lì da decenni e ha assorbito la struttura mentale del posto. Senza nemmeno rendersene conto».

Si tenderebbe invece a pensare che chi ha un passato da migrante sia più comprensivo…
«Ma non è così: tra le persone più razziste nei confronti degli afroamericani che ho incontrato negli Usa, ci sono gli immigrati africani e caraibici».

La giovane e problematica Sadie sostiene che tutti gli immigrati indossino una patina di whiteness, di “bianchitudine”.
«Sì, lei nota che, per quanto gli immigrati che frequenta siano etnicamente eterogenei, sono però culturalmente omogenei: appartengono tutti alla classe media americana. Continuando a dare credito a questo mito del colore della pelle, perdiamo di vista il fatto che un immigrato cinese come il dottor Wei ha molte più cose in comune con un wasp qualsiasi che con un afroamericano che vive in una periferia disastrata».

Le sorelle Taiwo e Sadie parlano in diverse occasioni dei loro capelli: le afroamericane hanno un rapporto problematico con il proprio aspetto fisico?
«Non voglio parlare a nome di tutte le afroamericane. Però è vero che durante l’adolescenza, quando tendi a volerti uniformare al gruppo, può essere doloroso scoprire che non rientri nei parametri della maggioranza. Ricordo che a scuola io e le mie compagne provavamo un forte desiderio di essere come le bianche. E anche per Sadie, il fatto di non somigliare alla sua migliore amica è fonte di sofferenza. La mia personale esperienza è che da questa ferita adolescenziale puoi guarire: ma se non ci riesci, allora quando sarai adulta la ferita continuerà a sanguinare. E per molte donne è così. A pensarci bene, è già da prima dell’adolescenza che si insinua nella testa delle bambine l’idea di essere inadeguate rispetto a certi parametri. Mi vengono in mente due episodi. Quando avevo circa sette anni a scuola ci chiesero di fare un esercizio. Dovevamo completare una frase che iniziava con “Vorrei…”. Tipo: “Vorrei… essere una principessa”, “Vorrei… poter volare”. Da adulta ho ritrovato il quaderno su cui avevo fatto l’esercizio. C’era scritto: “Vorrei… essere bianca”. Quando l’ho letto, mi sono messa a piangere. Mi ha fatto male pensare di aver scritto una frase così in totale innocenza e trasparenza, senza pensare ci fosse qualcosa di strano o di cui vergognarmi. Un altro episodio: poco tempo fa una signora tedesca mi ha raccontato di essersi trovata al parco con una bambina nera. La piccola, che stava disegnando una principessa, a un certo punto si è fermata e le ha chiesto: “Di che colore le faccio la pelle?”. La signora l’ha incoraggiata: “Falla come te”. La bimba ha reagito immediatamente: “Ma… è una principessa!”. Io capisco benissimo cosa intendeva: le principesse (almeno quelle di Walt Disney) sono bionde con gli occhi azzurri. Io, come donna nera sono dovuta guarire da queste ferite. E se avrò una figlia dovrò assicurarmi che sappia sin da piccola che anche lei è una principessa. Come lo sono io».

Gabriella Grasso