Testimonianze

Ponte Galeria, cronaca di fine anno

Alessandra Ballerini, Stefano Galieni - 11 Gennaio 2015

CIE_PonteGaleria13Addio 2014, ti lasciamo ricordando due frasi, una ormai resa pubblica perché intercettata, l’altra ascoltata in diretta telefonica. Iniziando dalla seconda arriveremo alla prima, ma vi chiediamo un po’ di attenzione, c’è un percorso da ricostruire.
19 dicembre, tardo pomeriggio, un freddo che entra nelle ossa, sotto le luci al neon del Cie di Ponte Galeria, periferia sud-ovest di Roma, dove ad alcuni di noi, attivisti, legali e giornalisti, hanno permesso di entrare e ad altri no, a causa di surreali difficoltà comunicative fra prefettura, questura ed ente gestore. La gestione è nuova, non ancora rodata. Chi ha vinto la gara d’appalto ha stracciato la concorrenza: «Con meno di 29 euro al giorno per ogni “ospite” garantiamo tutto». Il Cie è vecchio, è quello di sempre. Con le sbarre a perdita d’occhio, di modo che alzando lo sguardo anche il cielo ti appaia in gabbia, i cani feroci e tristi faticosamente tenuti a bada da poliziotti che fanno bella mostra di questa rumorosa armata a quattro zampe, i materassini di gommapiuma buttati a terra senza una rete né una coperta, i cessi inguardabili, il cibo scarso e di pessima qualità, le proteste, le risse, le divise in assetto antisommossa. Tutto tristemente vecchio.
Dentro al centro chi ha avuto modo di passare alcune ore con l’europarlamentare Barbara Spinelli, alla quale non poteva essere negato l’ingresso, registra e riporta a chi è rimasto fuori quanto ha potuto vedere e sentire. C’è tensione, forte, chi è rinchiuso lamenta assenza di igiene, personale inesistente, freddo e luce accesa giorno, ma soprattutto, notte.
I reclusi ci mostrano i loro giacigli e i cessi che non è possibile chiamare diversamente e si lamentano. Della reclusione in sé che non riescono a comprendere: «Sono nato in Italia». Oppure: «Sono qui da 22 anni ho famiglia e lavoro»; o ancora: «Ho già scontato la mia pena in carcere, perché mi rinchiudete ancora?» e poi i tanti e sinceri “sono malato” “sono tossicodipendente” e infine il coro unisono “aiutateci”.
Ma si lamentano con maggior acredine, a volte sfidando coraggiosamente il direttore, delle condizioni di questa ingiusta detenzione. «Sono qui da quattro giorni e ancora non mi hanno dato nulla. E non parlo solo dei vestiti e delle ciabatte, parlo di sapone e carta igienica. Guarda le mie mani mi faccio schifo» A noi, perdendo il nostro ruolo di persone che dovrebbero fare cronaca, fanno schifo altri, coloro che le mani sono convinti di averle pulite. È la cronaca di una giornata normale nel Cie ma guai ad accettarla come norma, finiremmo anche noi a cercare misere mediazioni con un sistema che non ne concede, che ha già definito la differenza fra i “sommersi” e i “salvati”.

Quando si prova a chiedere conto ai responsabili del centro, si entra in un sistema di scatole cinesi. Tre sono i soggetti coinvolti: la GEPSA (Gestione Penitenziari e Servizi Ausiliari), società francese del gruppo Cofely (2.200 dipendenti in Italia) e controllata da GDF Suez, uno dei colossi mondiali dell’energia; la Associazione Culturale Acuarinto (sede ad Agrigento) che si occupa di minori non accompagnati, vittime di tratta e richiedenti asilo; la romana Synergasia, impegnata nella mediazione linguistica. Soggetti che quindi non sembrano possedere i titoli e le competenze per gestire un Cie. O almeno è impossibile essere informati attraverso la responsabile comunicazione di GEPSA, raggiunta telefonicamente e impossibile anche saperlo dai funzionari della stessa, presenti al centro. Ci spiegano che le loro “procedure aziendali” impongono di non poter riferire alcun dato anche se richiesto da parlamentari. E la frase raggelante di partenza è questa: «L’azienda deve tutelare i propri clienti, quindi se volete informazioni specifiche dovete richiederne alla Prefettura, il nostro cliente». Il concetto di trasparenza, il fatto che si operi con un ente pubblico, non viene preso in considerazione, in fin dei conti tutto è privatizzato quindi i reclusi nel Cie sono esclusivamente un fatturato. Il concetto viene ripetuto in maniera ossessiva e ripetitiva, quasi si trattasse di una voce preregistrata, inutile cercare un dialogo. La società francese sembra si stia interessando ad acquisire gran parte degli appalti che riguardano non solo i Cie ma anche i centri per richiedenti asilo e ogni forma di accoglienza. Garantisce serietà e discrezione, dimezza il personale impiegato (quindi i costi) e si impone sul mercato. Intanto, delle modalità di trattamento dei reclusi poco importa, anche perché, ogni fatto che accade lì dentro sarà reso pubblico solo se “il cliente”, quindi alla fin fine, il ministero dell’Interno nei suoi organismi periferici, lo vorranno. Ma c’era bisogno di una multinazionale con sede in Francia per fare business sugli immigrati in Italia? Non bastano già coloro che operano da tanti anni impunemente? Il 18 aprile 2004, in tv andò in onda una puntata di Report, sugli allora Cpt (oggi Cie). È ancora attuale: in quell’occasione la direttrice del programma, Milena Gabbanelli, ebbe a dire: «Gli immigrati non li vuole nessuno, i soldi degli immigrati li vogliono tutti». C’è da augurarsi che, data l’assenza della politica, provveda la Corte dei Conti a renderci edotti sui misteri aziendali, ancora più indecifrabili degli arcani imperii.
Giornata assurda quella del 19 dicembre 2014. Per chi, come noi, da 15 anni si occupa di centri di detenzione, una sorta di svolta. Prima un avviso dalla prefettura in cui ci si dice che la visita ad una delegazione è “sconsigliata”, poi una mediazione in base alla quale una parte della delegazione è autorizzata ad entrare mentre alcuni restano in attesa, poi una trattativa per entrare a parlare con una delegazione di “ospiti”, quindi i passi indietro motivati dal fatto che la prefettura non aveva comunicato alla questura l’elenco dei visitatori. Momenti di tensione, fuori, i dipendenti della “Auxilium”, l’ente gestore che aveva perso l’appalto, protestavano per difendere i propri posti di lavoro. Dentro regnava il caos e dopo alcune ore l’ufficio immigrazione della questura decideva di imperio. Entravano solo l’europarlamentare Barbara Spinelli, due suoi collaboratori e la portavoce della campagna LasciateCIEntrare, Gabriella Guido. Saranno queste le modalità per il prossimo futuro nei centri? Difficile prevederlo, a chi è rimasto fuori hanno garantito che quando la nuova gestione andrà a regime, non ci saranno problemi. Ovviamente però non si potranno fare domande pretendendo risposte immediate. Arriviamo così alla seconda frase.
«Con gli immigrati si guadagna più che con la droga». È diventata una delle frasi simbolo dell’inchiesta “Mafia-Capitale”, caposaldo di un sistema di affari incentrato sulle necessità di provvedere all’accoglienza e basato sul fatto che ogni elemento di trasparenza nella gestione dei servizi salta, sempre e da sempre, in nome di una condizione di emergenza. Emergenza e discrezionalità, due parole che dovrebbero essere bandite dal vocabolario di chi si occupa di immigrazione e di accoglienza e più in generale della fruizione dei diritti fondamentali. Non è una emergenza ma una prassi. Le persone arrivano e arriveranno, ieri attirate dalla prospettiva di un futuro migliore in Italia, oggi in fuga dalle guerre e con l’obiettivo di considerare il nostro come paese di transito. Un’emergenza e una discrezionalità che permettono tranquillamente, nel silenzio assoluto, che una parlamentare europea che su questioni connesse all’immigrazione sta già operando insieme ad altri, affinché per l’Italia scattino procedure di infrazione, di essere tenuta sul gradino dell’ingresso di uno zoo per esseri umani, come giustamente ha voluto definirla. Spinelli è uscita indignata da questo incontro con la realtà, come ne è uscita incollerita Daniela Padoan sua assistente. Per noi, chi firma e chi come l’antropologa e militante antirazzista Annamaria Rivera o il giornalista, presidente della Carta di Roma, Giovanni Maria Bellu, questa è la vergogna misconosciuta di un paese orrendo. Questo 2015 inizia con la solita bugia dell’invasione di “clandestini” stavolta che arrivano sullo Jonio o sull’Adriatico o che muoiono in un traghetto dalla Grecia. E ci dicono che sono “clandestini” siriani, kurdi, afghani, iracheni. Sempre più spesso, morti. Ma anche da morti sono solo clandestini. Mai che si dica perché arrivano o dove avrebbero voluto andare.
E si alzano, giustamente parole di fuoco, contro chi traffica sulle loro vite per farli giungere in Italia.
Le stesse parole di indignazione per chi lucra sulla loro accoglienza qui o sulla loro inutile e assurda detenzione, sono già roba dimenticata, roba del vecchio anno. Ma per noi che eravamo dentro o fuori, la memoria conta ancora e anche questo 19 dicembre, lo porteremo in giro, come racconto di una storia che chiede, pretende, giustizia.

Alessandra Ballerini e Stefano Galieni