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Kyenge, bilancio di inizio anno

Stefania Ragusa, Ilaria Sesana - 6 Gennaio 2014

1000596_288031941339320_654775099_nL’intervista comincia con una domanda del ministro: «Al mio predecessore, Andrea Riccardi, nessuno chiedeva conto e ragione di quel che avveniva nei Cie. A me sì. Come mai?». C’entra il colore della pelle. C’entra l’origine straniera. C’entrano – e lei lo dice chiaramente – anche giochi politici, che non fanno bene alla causa dell’integrazione. Che è «la politica del futuro».
Da quando è diventata ministro,  Cécile Kashetu Kyenge ha raccolto a ciclo continuo insulti razzisti (risulta il ministro più insultato al mondo, in una singolare classifica) e varie contestazioni. In particolare, è stata accusata di avere cambiato idea su temi sensibili, come la chiusura dei Cie. «Non ho cambiato idea. Le mie opinioni sono note (Kyenge per molti anni si è battuta per la chiusura dei Cie e per una nuova legge sull’immigrazione, ndr) e il mio percorso da politica e attivista pure. Come ministro ho però un margine di azione limitato ed è all’interno di quei limiti che posso agire e agisco. Tra chi mi chiede di forzare questi limiti qualcuno è in buona fede, perché davvero non conosce le competenze del mio ministero e confonde l’Integrazione con l’Immigrazione. Altri no, non sono in buona fede».

Le competenze del suo ministero. Partiamo da qui.
«Le mie deleghe sono: Integrazione, Politiche giovanili, Servizio civile Nazionale, Adozioni Internazionali, Antidiscriminazione razziale, Strategia di inclusione di Rom, Sinti e Caminanti. In questi ambiti ho pieno potere decisionale pur essendo limitata dalla mancanza di risorse: il mio ministero infatti è senza portafoglio. Posso inoltre essere presente ai tavoli in cui si discutono i temi legati all’immigrazione, collaborare e agire da pungolo. Ma le decisioni finali spettano ai ministri che hanno la delega per quella materia specifica, non al mio ministero. Che non può diventare il capro espiatorio per quello che gli altri dicasteri non fanno».

Può tracciare un primo bilancio di questi primi sette mesi da ministro?
«Sette mesi sono pochi e allo stesso tempo sono tanti. Abbiamo lavorato molto e siamo riusciti a ottenere parecchie cose: piccoli miglioramenti su tanti fronti diversi. Cominciamo con i tavoli. Ne abbiamo avviato uno per l’inclusione di rom sinti e caminanti, facendo partire una commissione ad hoc, unica in Europa, per definire lo status giuridico di quelle persone che, per varie ragioni, non ce l’hanno e si trovano a vivere come fantasmi: non si tratta di singoli ma di intere comunità. Abbiamo fatto partire il tavolo per il dialogo interreligioso. Partecipiamo a quello per i minori non accompagnati.
Abbiamo contribuito all’avvio di un fondo per l’imprenditoria femminile, che è per tutte le donne, non solo per le immigrate. Abbiamo avviato vari protocolli con gli enti locali per valorizzare e premiare le buone pratiche di integrazione.
A luglio abbiamo varato il primo piano triennale contro il razzismo. Abbiamo recepito una direttiva europea che permette l’accesso ai bandi per il pubblico impiego a titolari di protezione umanitaria e lungo soggiornanti.
Inoltre, attraverso il decreto scuola, abbiamo ottenuto di far valere il permesso di soggiorno per motivi di studio per tutto il periodo della formazione. In questo modo si agevola il percorso degli studenti e si rende anche l’Italia più competitiva a livello internazionale.
Stiamo lavorando poi, attraverso le Politiche giovanili, per favorire la partecipazione dei giovani a tutti i livelli, che è un passaggio di estrema importanza per il futuro. Abbiamo ottenuto una semplificazione nell’iter per la cittadinanza, prevedendo altri criteri per dimostrare la presenza continua sul territorio oltre a quello della residenza anagrafica (grazie a questo passaggio, una persona come Liza Suamino, di cui il nostro giornale ha raccontato la storia, può finalmente ottenere la cittadinanza italiana, ndr). Abbiamo portato avanti la campagna contro l’hate speech sul web. Abbiamo scelto di farlo attraverso le politiche giovanili perché riteniamo importante educare i giovani a un uso diverso e più consapevole del web e dei sistemi informatici. Abbiamo promosso e adottato, inoltre, la dichiarazione di Roma, che vuole essere uno strumento concreto contro la xenofobia e per la riscoperta dei valori fondanti dell’Europa».

Cos’è la Dichiarazione di Roma?
«Di questa Dichiarazione, presentata a settembre, si è parlato molto in Europa. In Italia la notizia è passata pressocché inosservata. Si tratta di un Patto – che al momento è stato sottoscritto da 23 Paesi – finalizzato a contrastare razzismo e discriminazionie, a impegnare chi riveste un ruolo di responsabilità (rappresentanti delle istituzioni, politici, pubblici ufficiali…) a utilizzare un linguaggio corretto ed educativo. Intende agire sul piano della cultura ma prevede sanzioni (che saranno poi definite dai singoli stati) per chi deroga dal principio in questione. A fine gennaio ci sarà un altro incontro, che coinvolgerà tutti gli stati Ue. Nel nostro Paese c’è una preoccupante tendenza a sottovalutare la portata e gli effetti del razzismo verbale, a considerarlo quasi una goliardata. Invece si tratta di una condotta da perseguire in modo sistematico e soprattutto quando appartiene a chi dovrebbe dare l’esempio».

Ma c’è stata anche la riapertura agli stranieri del Servizio Civile Nazionale. Un’azione accompagnata da molte polemiche…
«Quest’anno – malgrado la difficoltà a reperire le risorse – abbiamo aperto un bando che permetterà a oltre 15 mila ragazzi e ragazze di impegnarsi in progetti sociali e nel volontariato internazionale. Poi, come stabilito da una sentenza del Tribunale di Milano, lo abbiamo riaperto includendo, per la prima volta, i ragazzi di origine straniera. Ed è stato importante perché la possibilità di partecipare al servizio civile fa parte di un percorso di cittadinanza piena. La giurisprudenza spesso indica delle strade e bisogna saper cogliere questo messaggio per cercare di cambiare politicamente l’impostazione del sistema.
Noi abbiamo fatto la nostra parte ma il percorso va completato in Parlamento, modificando quella legge che equipara il servizio civile a quello militare che è riservato ai soli cittadini italiani e che di fatto ostacolava questa apertura. I parlamentari, che hanno gli strumenti per farlo, devono impegnarsi per fare le modifiche di legge necessarie».

A questo elenco potrebbe aggiungersi presto una legge organica sul diritto d’asilo?
«Quando abbiamo iniziato il nostro mandato questo tema non era tra le priorità del Governo. Ora ha assunto un ruolo centrale: stiamo recependo tutte le direttive europee che riguardano l’asilo e completeremo questo lavoro entro il mese di gennaio. Successivamente armonizzeremo il tutto con la normativa nazionale per arrivare alla stesura di un testo unico che dovrebbe essere pronto entro i primi mesi del 2014. Tra le direttive recepite ricordo quella che permette ai profughi riconosciuti di essere equiparati ai lungo soggiornanti e, quindi, muoversi e cercare lavoro anche all’interno dell’Unione Europea. Se ne è parlato poco ma rappresenta un cambiamento molto importante».

Il 2014 sarà anche l’anno buono per la riforma della legge sulla cittadinanza?
«Per me questa rimane una priorità, un obiettivo e anche una promessa. La cittadinanza è lo strumento principale per promuovere l’integrazione e la partecipazione attiva dei giovani, in tutti i settori. Senza cittadinanza è difficile parlare di integrazione completa. Alla nuova legge si dovrà arrivare però in accordo con tutte le parti e con il coinvolgimento di tutti. Il cambiamento dovrà essere condiviso. Per evitare che, con un nuovo governo, si cambi di nuovo la legge».

Qual è lo ius soli che ha in mente?
«La mia proposta, da deputata, è stata quella di uno ius soli temperato per i bambini che nascono in Italia da genitori stranieri che hanno alle spalle un percorso di integrazione. Mentre, per coloro che arrivano qui molto piccoli, prevedeva la possibilità di ottenere la cittadinanza dopo aver concluso un ciclo scolastico. Tutto questo per favorire una piena partecipazione e la consapevolezza dell’universalità dei diritti umani. Ma anche per tener conto della specificità dell’Italia che è stato a lungo un paese d’emigrazione e che solo da pochi anni è diventato anche d’immigrazione».

Che fine ha fatto la legge per il diritto di voto agli stranieri?
«È una questione che a me sta molto a cuore, ma nel nostro ordinamento il potere legislativo spetta al Parlamento. È stata depositata una proposta di legge su questo argomento e i parlamentari hanno tutti gli strumenti e il potere per portarla avanti. Auspico che lo facciano».

Ministro, perché ha partecipato ad Agrigento alla contestata cerimonia funebre per le vittime del 3 ottobre?
«Per rispetto verso le persone e verso le istituzioni. Agrigento non è stata una mia scelta. Sarebbe stato molto significativo farli a Lampedusa, dove pure ci sono state funzioni e celebrazioni secondo i vari riti religiosi. Ma io dovevo comunque essere presente».

Molto insultata ma anche molto amata e popolare. Chi l’ha sostenuta in questi mesi?
«C’è un tipo di sostegno, morale e verbale, che ho ricevuto e ricevo da tante persone, da quella che chiamo l’Italia migliore e che spesso passa inosservata perché non fa rumore. È un appoggio che va oltre la mia persona e che riguarda le idee e i valori per cui mi sto impegnando. C’è un altro tipo di sostegno. A livello territoriale, l’ho avuto da molti enti locali, che mi hanno appoggiato, per esempio, nella campagna sulla cittadinanza onoraria, che è molto importante sul piano culturale. Ho avuto il sostegno, poi, di molti colleghi e del presidente del Consiglio. Ma l’aiuto vero, che deve ancora arrivare, è l’attribuzione di risorse economiche alle politiche sull’integrazione».

Cosa pensa dell’interesse che si è scatenato attorno alla sua famiglia d’origine?
«Io rappresento una novità per l’Italia e non mi sorprende la curiosità. Ci sono state però delle punte di esagerazione. Penso ai video fatti su mio padre, che probabilmente sono stati legati anche a un certo desiderio di denigrare e sui quali non mi sono mai pronunciata. Cosa volete che dica? Per me mio padre è mio padre, la mia famiglia è la mia famiglia. Chi conosce la cultura africana può capire e apprezzare. L’identità è fatta anche di contaminazioni. Io ho scelto di essere cittadina italiana, ho le mie idee, ma non rinnego le mie origini: chi lo fa perde una parte della propria identità».

 Ilaria Sesana e Stefania Ragusa