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Pianeta colf

Arianna Liuti, Stefano Galieni - 11 Maggio 2014

sindromeIl 35% di tate, colf e badanti lavora in nero (dati Inail/Università La Sapienza di Roma). Questo in molti casi è una conseguenza dell’assenza di un regolare titolo di soggiorno. In altrettanti è però la condizione che porta all’impossibilità di rinnovare un permesso in scadenza. Un’altra bella fetta delle lavoratrici impiegate nel settore della cura (è una lunga perifrasi che si usa per indicare, appunto, tate, colf e badanti), invece, ha un impiego ufficialmente regolare, tra le ore di lavoro effettive e quelle riportate dal contratto c’è sempre uno scarto al ribasso, che permette magari di non scivolare nella clandestinità, ma costringe a rinnovare ogni anno i documenti (e in Italia, lo sappiamo, questa non è un’operazione rapida né economica) e impedisce di ottenere la Carta Ce per i lungo soggiornanti.

Si tratta di un sistema cresciuto nell’ombra e che si è trasformato velocemente in un modello. La famiglia ha sempre svolto il ruolo di ammortizzatore sociale, a sostituzione dei servizi pubblici. Il welfare italiano si è avvalso sempre di più del ruolo attivo del nucleo famigliare, scaricando molte delle sue competenze, come prevedibile, sulle donne. Ma è maturata negli anni una trasmissione di incombenze che, fino a una ventina d’anni fa, riguardava solo i ceti elevati, mentre adesso tocca, anche se in misura diversa, praticamente ogni famiglia in cui ci siano donne che lavorano, perché il lavoro di cura è rimasta una questione femminile, e le donne che non vogliono o non possoono farsene carico hanno tutte la necessità di delegare. Le collaboratrici domestiche, sono divenute una risorsa essenziale in uno scenario di rapido invecchiamento come quello della popolazione italiana.

In Italia (la fonte è ancora l’Inail) ci sarebbero 1.538.000 persone che prestano servizio presso 2.412.000 famiglie. Il prolungamento della speranza di vita ha implicato l’insorgenza di numerose problematiche, come quelle della non (o non piena) autosufficienza. Si incontrano così due diversi tipi di fragilità: quella degli anziani, dalla salute cagionevole o segnata da malattie croniche, e quella di donne impiegate in un settore scarsamente tutelato. Secondo uno studio dell’Unità operativa del Dipartimento di Medicina del Lavoro, realizzato in collaborazione con la cattedra di Psicologia dell’Università La Sapienza, sono, nel 2013, 982.975 i collaboratori famigliari effettivamente contrattualizzati, l’82% dei quali sono donne e il 77,3% straniere, che provengono prevalentemente dall’Europa dell’Est (Romania, Ucraina, Moldavia). Lavorano per una paga media che non supera mai i mille euro mensili e che rimangono, il 62,8% delle volte, a contatto giorno e notte con l’assistito.

Raramente a queste donne viene dato modo di raccontarsi. Eppure sarebbe importante che rispetto a loro ci fosse anche «una rilevazione qualitativa, che non si fondi esclusivamente sui dati infortunistici, che corrispondono sempre, anche nella più rosea delle ipotesi, ad una sconfitta – ha dichiarato Marta Petyx, Responsabile del Progetto Inail Ricerca, Dml, nel corso della conferenza in cui sono stati presentati i primi dati di questo studio. «Quello assistenziale è, infatti, un impiego che più di altri permette l’interazione tra sfera personale, lavorativa e sociale». Per questo motivo è stato somministrato ad un campione di 222 persone (per la maggior parte donne), di età compresa tra i 30 e i 60 anni, un questionario in grado di valutare lo stato di benessere e la disaffezione al mestiere. Un questionario in cui è stato chiesto agli intervistati di raccontare se stessi, come si percepiscono, che prospettive hanno del proprio futuro e con quali problematiche, ma anche con che soddisfazioni vivono il proprio presente in Italia. Troppo spesso vengono sottovalutati, infatti, nell’analisi dei rischi connessi all’esercizio della mansione, la “soddisfazione di vita” (intesa come l’umore, il contatto sociale, la quotidianità del lavoratore) o l’“empowerment” (vale a dire la sua capacità di porsi degli obiettivi e di interagire a livello sociopolitico).

Ad incidere maggiormente sulla vulnerabilità dell’occupazione straniera è proprio l’instabilità del posto di lavoro, che vede gli immigrati più soggetti a licenziamenti selettivi o a impiego senza contratto regolare: sebbene il 61,1% degli intervistati affermi di averne uno, quasi tutti lavorano molte più ore di quante siano regolarmente dichiarate. Altro dato allarmante è l’assenza di una formazione ad hoc. È emerso dal colloquio, che il 60% dei dipendenti possiede un diploma di scuola media superiore e ben il 22,3% è laureato. A questa elevata scolarizzazione, però, non fa seguito una piena conoscenza della professione. Ci si ritrova ad assolvere compiti per cui non si è preparati neanche psicologicamente: l’assistenza ad una persona, il livello costante di tensione e di attenzione che questo richiede porta spesso a condizioni di burn out che possono sfociare in vere e proprie condizioni di depressione e di perdita di autostima. Paradossalmente, la condizione più dura sembra essere quella di chi lavora ad ore, quelle che saltano da una famiglia all’altra in base alle richieste  e che assistono più persone contemporaneamente. Si percepiscono come più fragili e impegnate di quelle che assistono un malato o un anziano giorno e notte. Hanno, insomma, una giornata fondata sulla precarietà perenne, non possono programmare spazi di vita extra lavorativi, affettivi e vivono questo con profonda ansia. In più, questa saltuarietà non consente di ambientarsi totalmente in un contesto lavorativo specifico, l’occupazione diviene spesso anaffettiva, ripetitiva, priva anche di motivazioni non connesse alla necessità di ricevere salario. Chi vive invece nella casa della persona assistita ha spesso un maggior controllo sulla pianificazione delle proprie giornate. Ogni storia è a sé e sono infinite le varianti che determinano la qualità del lavoro e della vita (dalla disponibilità della famiglia che assume, al tipo di interrelazione che si stabilisce con l’utente. In questi casi, il datore di lavoro è unico e i meccanismi affettivi che sovente si stabiliscono compensano solitudine e spaseamento e assenza del proprio nucleo famigliare. Basta provare a parlare con le donne che vivono questa condizione e che spesso hanno ancora, come tempo liberato, il giovedì pomeriggio e la domenica mattina, o ascoltarle mentre conversano fra loro, spesso ormai in italiano, e sentirle discutere anche con affetto dell’anziano, della “signora” (la figlia o la nuora dell’anziano in questione), quasi come se parlassero di una dimensione anche extra lavorativa. I rapporti migliori che si costruiscono, malgrado permanga una condizione di sottosalario, sono quelli che vanno da donna a donna o fra assistente e anziano. Numerosi sono stati i casi in cui la presenza di uomini italiani adulti in tali dinamiche lavorative ha portato come ulteriore carico situazioni di molestie ai danni delle donne che hanno preso in carico l’anziano o il malato.

La nostalgia resta spesso in agguato, specie per chi ha lasciato figli o il resto della famiglia in patria. La nuda cronaca parla di bambini che, soprattutto nell’Est Europa, privi delle madri si lasciano andare fino al suicidio, ma oltre queste condizioni estreme c’è quella che ricercatori affermati hanno chiamato “Sindrome italiana” e di cui già abbiamo dato conto nel Corriere delle Migrazioni. Si traduce anche come patologia in perdita di appetito e di sonno, ansia e stress continui, crisi di panico apparentemente immotivate. Chi lavora, nonostante il già ricordato livello di istruzione, non considera queste “malattie  professionali”, ma l’inevitabile conseguenza del percorso migratorio.
E si tratta di un lavoro che, svolgendosi in solitudine, non consente neanche gli spazi per una sindacalizzazione che potrebbe portare a miglioramenti salariali o delle stesse condizioni di impiego. Si vive e si lavora in un silenzio costante, rotto spesso solo nei momenti di dialogo con le colleghe incontrate nel tempo libero e si giunge ad una fragilità che diviene anche esistenziale. Nell’inchiesta Inail, realizzata su lavoratrici impiegate a Roma, emergono anche le contraddizioni relative all’integrazione. Il 37,8% degli intervistati risiede in Italia da 6-10 anni e il 50% risponde che si sente “abbastanza” integrato all’interno della comunità italiana. Stupisce, però, che a dichiararsi non del tutto inseriti nella nostra società siano proprio coloro che vi soggiornano da più anni, tanto che il 53% afferma di voler tornare nel proprio paese di origine. Il segnale inequivocabile di quanto questa “integrazione” non stia riuscendo a produrre vera e propria inclusione. Ci si dichiara “integrati” ma si aspira ad un lavoro e ad una qualità della vita diversi che questo Paese sembra non essere in grado di offrire a chi era partito con grandi aspettative. Tra l’altro, come emergeva in parte da un nostro precedente servizio sulla comunità filippina in Italia (la prima nazionalità non europea di provenienza delle lavoratrici di cura), un salto di qualità dell’inclusione lo si realizza quando queste donne padroneggiano anche la lingua italiana. Se per chi arriva dall’Est Europa questo processo si realizza più facilmente, soprattutto per le lavoratrici e i lavoratori rumeni grazie alle similitudini linguistiche, per chi arriva dall’Asia questo è più raro e parziale, sia per l’assenza di tempo materiale da dedicare all’apprendimento che per l’intenzione ancora più radicata di considerare quello in Italia solo come un periodo transitivo della propria esistenza.

Quelle che emergono sono vere e proprie correnti migratorie “al femminile” che agiscono da collante sociale e che si inseriscono in processi determinanti per le società d’arrivo. La crisi economica, se non ha inciso sulla domanda, sta tentando di abbassare i costi del lavoro, la concorrenza si fa spietata per chi garantisce la maggiore disponibilità al prezzo minore e in tale nicchia cominciano ad entrare anche donne italiane che, rimaste prive di occupazione, cercano in questa maniera di garantirsi reddito. Hanno un potere contrattuale basso perché non subiscono il ricatto del permesso di soggiorno, conoscono spesso i propri diritti e non accettano di vivere totalmente con la persona da accudire e questo sta contribuendo a creare nuove forme di conflitto verso le “straniere” Eppure, queste straniere, sono donne che incorrono in una duplice, quando non triplice, discriminazione: a stereotipi di genere si sommano nei loro confronti pregiudizi etnici e di classe, che le costringono quasi sempre a lavori inferiori alle loro potenzialità e competenze. Emigrare è sempre una scelta coraggiosa, anche se troppo spesso obbligata, soprattutto se a compierla sono madri, mogli e sorelle che credono ancora in un mondo in cui nascere donna non è considerato una colpa.

Arianna Liuti
Stefano Galieni