Immigrate e madri. Quando la migrazione è separazione dagli affetti e dai figli

L.M. - 15 Novembre 2010
Dakar-clandò
La rubrica di Chiara Barison
La distruzione della scuola pubblica e della ricerca spingono sempre più italiani ad emigrare per rincorrere i propri sogni. Anche a costo di separarsi dalle persone più importanti della propria vita. Come una figlia


DAKAR (SENEGAL). “Mi raccomando, fai la brava. Ci sentiamo domani”. Chiudo il telefono e sospiro. Mia figlia ha cominciato quest’anno la prima elementare e io non ero lì. E’ da quasi un anno che sono a Dakar e da quasi un anno la nostra relazione vive attraverso il telefono o attraverso Skype.

E’ ancora così piccolina che quando mio fratello accende il computer, la sola cosa che vedo sono i suoi capelli, un enorme massa di ricci che si muove a destra e sinistra. Rido ogni volta dicendole che deve salire sulla sedia perché io possa vederla. Rido ma il mio riso è amaro. Io sono una delle tante madri che è stata costretta a emigrare per lavoro e questa scelta ha comportato una separazione dolorosa, quella dai proprio affetti, dalla propria famiglia.
Ho pensato spesso qui a ciò che hanno vissuto e che vivono i migranti stranieri in Italia. Se non lo avessi vissuto sulla mia pelle probabilmente non ci avrei nemmeno mai pensato. Eppure quanti di loro sono partiti solitari alla ricerca di un lavoro? In quanti si sono dovuti lasciare dietro fidanzate, mariti, figli, genitori? In quanti hanno dovuto attendere anni prima di poterli riabbracciare?
Certo, noi italiani scrolliamo le spalle, tutto sembra scivolarci addosso, i migranti restano sempre in una sorta di limbo a metà tra noi e un piano distante, indefinito, dove essi sono considerati uomini a metà. Sembrano lontani anni luce gli anni d’oro di Borghezio e Bossi quando nei loro comizi urlavano slogan razzisti contro i “bingo bongo”. Vorrei oggi poter parlare loro e dirgli che è tempo di zittirsi. Io, italiana e pure veneta sono emigrata proprio nel paese dei “bingo bongo” e sono proprio questi “bongo bongo” che mi hanno permesso di continuare i miei studi e le mie ricerche.
Sono seduta vicino a casa, sopra una pietra ed osservo il mare, agitato come sempre. Da quando sono qui capisco sempre di più perché i senegalesi passano ore seduti di fronte all’oceano. E’ lui il confessore e il custode dei nostri segreti, dei nostri desideri. Lui l’amico paziente che raccoglie confessioni, paure e pianti. Le lacrime scivolano veloci. Se fossi rimasta in Italia avrei dovuto rinunciare al mio dottorato, nessun futuro per chi fa ricerca; avrei probabilmente dovuto appoggiarmi ai miei genitori per vivere, a trent’anni, perché il mio piccolo lavoretto da barista non mi permetteva di essere indipendente. Con la mano gioco con la sabbia, riempio il pugno e la lascio scivolare dipingendo piccoli cuori. Ho dovuto scegliere e questa scelta mi ha logorato. L’emigrazione rimaneva la sola soluzione possibile per arrivare lì dove avevo sempre sognato, l’insegnamento. Non è facile essere immigrati, non lo è per nessuno perché rimani e resti sempre diverso, altro, straniero. Avrei voluto tornare per vedere mia figlia, ma i soldi non ci sono e il biglietto aereo è caro. Vorrei portare mia figlia qui ma non posso, non ho nemmeno una casa, è Vera che mi ha dato una stanza dove dormire. Rido e il mio riso si trasforma. Stringo i denti perché mi viene tanta rabbia. Qui tutti pensano che tu sia ricca perché bianca e in Italia pensano che chi viene in Africa viva nei resort a quattro stelle o nelle ville con piscina, “perché tanto in Africa costa poco”. La mia stanza mi ricorda la stanza del padre di mia figlia, un senegalese, che, per parecchi anni, a Brescia, dov’era arrivato come migrante, faceva il vù cumprà. Nella mia stanza non c’è nulla, un piccolo materasso gettato a terra, valigie aperte e piene di vestiti, scarpe ben ordinate in fila e libri, tanti libri. No, non ho la televisione e non ho nemmeno un armadio. La televisione costa e anche l’armadio. Per essere onesta, tutto costa caro a Dakar e io vivo di ciò che vendo nel piccolo negozio che ho aperto nel bel mezzo del mercato di Sandaga. Questi pochi soldi mi permettono di continuare le mie ricerche per l’università di Trieste, di mangiare e poco altro. Non avrei potuto farlo senza questo piccolo negozio. L’università italiana non ha soldi, non ce li ha mai. In testa solo l’immagine di professori sbuffanti e disillusi, arresi a un sistema che fa di tutto per distruggerli e per distruggere la loro missione, quella di insegnare, formare, preparare e plasmare una nuova società. Loro, stanchi e delusi, si preoccupano più di salvare un posto che diviene a rischio anno dopo anno, che di insegnare e motivare gli studenti allo studio. Questi ultimi, a loro volta, lasciano pian piano l’università, ritenuta inutile, preferendo lavorare o meditando sempre più concretamente di lasciare l’Italia.
In quanti mi hanno “caldamente consigliato” di lasciare perdere gli studi, la ricerca, che non mi avrebbero mai portato a nulla, che non sarei comunque mai potuta diventare un’insegnante. Ho dovuto emigrare per capire che non è vero, che in Italia bruciano la speranza e gettano i sogni fuori dalle finestre. Qui ho insegnato ai miei studenti arrivati dall’Italia. Nessuno può sapere la gioia, la voglia di fare, la felicità che c’era nei loro occhi.
E nessuno sa la sofferenza che pago ogni giorno per aver inseguito il mio sogno. Guardo l’oceano e immagino casa mia, la tavola preparata, la stufa accesa, mio padre e mia madre ridere e scherzare, mia figlia, viziata e coccolata e suo padre. Il mondo è cambiato. In Italia un immigrato senegalese è stato accolto come figlio da una famiglia veneta. Da Padova una famiglia che la migrazione ha trasformato rendendola multietnica, un senegalese “adottato” come figlio e una nipote italiana e nera, chiama in Senegal, destinazione “sorpresa” dei nuovi migranti dove una ragazza italiana è emigrata e vive da immigrata. “Ciao, come stai? Stai bene?” le domande di rito. E quel “quando torni, mamma?”, domanda che arriva come freccia al cuore. “Presto”. A Padova un papà senegalese abbraccia la figlia sorridendo su Skype. La mamma, italiana è lontana, a Dakar e non si sa quando tornerà. Guardo l’oceano ancora e ripenso ai pomeriggi passati a Pikine, a tutte le volte che ho visto le mie amiche piangere

, corrose dalla nostalgia e dall’amore per mariti partiti all’estero e mai più rivisti. “Asciugati le lacrime, sai che devono partire. Torneranno, prima o poi, e tu sarai lì a riabbracciarli” così diceva Awa alla sorella e io guardavo i bimbi, piccoli cresciuti con i genitori lontani, accuditi da nonne, zie, mamme, cugine. Non l’avrei mai detto che sarebbe toccato a me, un giorno. Se potessi parlare con Bossi e Borghezio direi loro di stare zitti perché la migrazione ha cambiato rotta, c’è solo da sperare che dalle coste del Senegal non decidano di sparare sui migranti italiani, che sempre più numerosi, cercano fortuna in terra africana.