Una chiesa e una moschea. Il rap e la migrazione

L.M. - 12 Febbraio 2011

Dakar-clandò

la rubrica di Chiara Barison
DAKAR. All’improvviso arriva un messaggio, è Matador, artista rap di Thiaroye (quartiere ghetto di Dakar) ma soprattutto il mio migliore amico. “C’è un tuo amico, Mamadou, chiede di te”. Sono sorpresa, Mamadou è un ragazzo senegalese conosciuto su Facebook grazie ai miei articoli. Internet è un autoparlante globale. Scrivo sul Senegal da quasi due anni e in tanti concoscono me attraverso le mie parole.
La cosa mi fa sorridere, ne sono contenta. In un’ epoca in cui l’apparire e l’immagine fanno l’essenza della persona, mi fa piacere sapere che io sono in quanto ciò che so fare, scrivere, nulla di più, nulla di meno. E grazie ai miei scritti il mio piccolo grande mondo senegalese fa il giro della rete in un click, portando alla ribalta persone comuni, gesti, parole, frammenti di quotidinanità che altrimenti resterebbero dietro le quinte, invisibili. Matador è uno di questi, un moderno combattente della nuova resistenza. Quella contro l’ignoranza, la povertà, la schiavitù intellettuale, la paura di non riuscire, la voglia di emigrare ad ogni costo che pervade tutto un paese, il Senegal. Nato in un quartiere dei più degradati, ha rinunciato alla possibilità di restare in Europa, nonostante la sua musica ce l’avesse portato, per ritornare e portare avanti un progetto difficile e ambizioso, Africulturban, che si propone di creare sviluppo attraverso la cultura urbana. “L’impresa rap è una delle più redditizie, sia negli Stati Uniti che in Francia” mi dice “e dà da lavorare a tantissime persone. Qui il rap è uno dei generi musicali più seguiti, perché non trasformarlo in impresa e creare posti di lavoro? Se poi pensi che la musica è anche un potente mezzo per veicolare messaggi, il rap potrebbe diventare la voce dei giovani per sensibilizzarli su tematiche sociali differenti e insegnare loro che la professionalità, unita all’impegno portano sempre a raggiungere grandi obiettivi, anche se si viene da un quartiere povero”. Matador ha ragione, lui che è rimasto nel suo quartiere per poter dare l’esempio ai giovani che un’altra possibilità c’è.
Corro al centro, ho davvero voglia di incontrare Mamadou, è uno dei miei lettori e critici più attenti e puntigliosi. La sua parola parla già di lui. Arrivo e lo trovo seduto a chiacchierare con i ragazzi del centro. Lo abbraccio, è come se ci conoscessimo da sempre. Mamadou è uno dei tanti ragazzi emigrati in Italia da anni, semplice, a modo. “La situazione attuale italiana mi spaventa” mi dice a voce bassa e lo sguardo a terra “mi spaventa l’ignoranza della gente comune, l’abbruttimento delle persone, la crescita del razzismo”. Poi continua “eppure la gente crea problemi anche quando non ce ne sono. La convivenza non è mai facile ma può essere la base di una crescita comune, il punto di partenza per conoscere e imparare altro e per migliorarsi”. Annuisco. Penso al mio lavoro di ricerca, alla mia tesi di dottorato nata e scritta qui, in Senegal. Una tesi che è la voce delle persone, dei loro racconti, dei loro pensieri. Se non avessi mai viaggiato, se non avessi conosciuto un’altra cultura, se non mi fossi data il tempo di ascoltare, di mettere da parte i miei stereotipi occidentali per un momento, non avrei mai potuto vedere che c’è altro e che quell’altro è spesso sorprendevolmente arricchente. E’ bastata l’umiltà dell’ascolto. Thierno Bokar, un saggio della regione di Bandiagara riassunse bene dicendo “se vuoi sapere chi sono, se vuoi che ti insegni ciò che so, cessa momentaneamente di essere ciò che tu sei e dimentica ciò che sai”.
“Ieri mia figlia è venuta da me e mi ha detto: ‘papà voglio portare il velo’. Ha solo 9 anni. L’ho accompagnata a comprarlo e oggi l’ha messo per andare a scuola. Frequenta una scuola privata cattolica. Quando è tornata a casa nel pomeriggio le ho chiesto se qualcuno le avesse detto qualcosa; se anche solo una persona avesse fatto battute o si fosse lamentata del fatto che portasse un velo a coprire il capo” racconta Mamadou. “Con mio stupore mia figlia mi ha risposto: ‘No papà, nessuno, perché?”. Poi continua “ho realizzato solo allora di come riflettessi secondo lo schema italiano, per cui la differenza è una colpa. Non se ne parla mai ma qui in Senegal esiste ancora il rispetto verso l’altro e l’identità che si porta dietro. Un paese che ha avuto per vent’anni un presidente, Senghor, appartenente ad una minoranza etnica e religiosa, l’etnia serere e la religione cattolica, in un paese a maggioranza wolof e musulmana; un paese dove l’attuale presidente Wade è sposato con una moglie europea e bianca; dove musulmani, cristiani, animisti convivono in pace, festeggiando in egual modo Natale e Tabaski; un paese dove le comunità straniere si mescolano e dialogano, dove nessun partito politico è nato su base identitaria o reclamando diritti legati ad una particolare appartenenza. Gli italiani dovrebbero fare un viaggio in Senegal per capire che noi, emigrati senegalesi, non siamo solo vù cumprà, ma siamo molto di più. E che possiamo insegnare loro il rispetto e la convivenza pacifica”. Io e Matador ascoltiamo le parole di questo ragazzo, intelligente ed educato, che si porta dietro la sofferenza della migrazione, gli anni a raccogliere pomodori nei campi foggiani, il commercio ambulante, le offese razziste e poi la pazienza e l’arma della parola che gli hanno permesso di integrarsi pian piano in una società, quella attuale italiana, impermeabile e discriminante.
“La cosa che mi ha colpito la prima volta che sono arrivato in Europa è stato quando sono entrato in metropolitana” dice all’improvviso Matador “da noi ogni volta che si incontrano delle persone si ha l’abitudine di salutarle, di parlare con loro, seppur non conoscendole. Sono entrato e ho detto un semplice buongiorno prima di sedermi. Nessuno ha risposto. Mi sono seduto e ho capito allora, perché la gente in Europa è così sola, triste, razzista. Non si danno nemmeno il tempo di conoscere chi stà loro vicino. E pensare che la parola non costa nulla ma apre mondi sconosciuti”. Io guardo Mamadou e Matador, uniti dai miei scritti e penso al potere della mia arma, la scrittura. Scrittura che mi ha salvato e che mi salva ogni giorno e che spero possa servire alle persone per aprire gli occhi, anche solo il tempo di una lettura. Tornando verso casa il tassista passa di fronte all’aeroporto di Dakar, non avevo mai prestato veramente attenzione, ma proprio lì, primo posto dove le persone mettono piede una volta arrivati in Senegal, una Moschea e una Chiesa si affiancano, una di fronte all’altra, sorelle, a dare il benvenuto a chi decide di venire in terra africana. Nessuna differenza. Sorrido per questa bella lezione di umana fratellanza e penso, possibile che a noi italiani faccia così differenza se una persona prega in bubù il venerdì o se a farlo è una signora con il velo nero in testa che si inginocchia di fronte una croce la domenica? Confine sottile.
Chiara Barison, dottoressa in scienze della comunicazione è attualmente iscritta al corso di dottorato internazionale dell’università di Trieste in Tansborder poli

cies for daily life. Da tre anni collabora con un’associazione culturale basata a Pikine, quartiere periferico di Dakar, chiamata Africulturban che si occupa di creare impresa a partire dall’hip hop. Ha scritto un libro intitolato ‘Lettere dal Senegal’, edito da Altromondo editore e girato tre documentari, tra cui uno, ‘Le invisibili’, parla di donne sposate a migranti partiti all’estero visibile su internet.